De Poli, l’artista che decise di farsi artigiano

Generazioni di artisti e architetti, di celebrità e imprenditori, ma anche di lavoranti e studenti hanno transitato per i luminosi e antichi locali della ditta “Paolo De Poli. Smalti d’arte” in via San Pietro 43 a Padova. Per sessant’anni, dal 1933 al 1992, l’attività del geniale artista dello smalto ha avuto sede in un palazzone trecentesco, carico di antico fascino, che si estendeva in altezza e larghezza per oltre 500 mq. Conciliando esigenze di produzione e rispetto degli spazi originari, De Poli aveva allestito a piano terra officina e magazzino, al primo piano laboratori e sala espositiva, al secondo i depositi. Una specie di sancta sanctorum era la stanza dei due forni, prima a carbone, poi elettrici, che dovevano fissare al metallo le polveri di smalto (425 colori puri più qualche decina di misti). Ogni colore ha un punto di fusione diverso compreso tra i 700 e i 950°C e varie fasi di cottura. Il salone della mostra campionaria e di vendita era il centro della vita pubblica dello studio dove si svolgevano serate d’arte con conferenze, presentazioni di libri e incontri come avvenne nel 1950 con Meyeric Rogers dell’Art Institute di Chicago o nel 1959 con la collezionista Janine Rockefeller. Nel 1958 Gio Ponti vi presentò il suo libro “Smalti” alla presenza di critici d’arte e direttori di musei italiani.
Protagonista del Novecento padovano, ancor prima del cantiere del Bo e del sodalizio con Gio Ponti, De Poli si distinse fino alle Biennali degli anni Sessanta dove presentò installazioni all’aperto in perfetta sincronia con il trend dell’epoca. Erano ancora forme in smalto colorato: pavoni giganti, un radar stellato “Omaggio a Galileo”, vasche d’acqua rotonde. A vederle con il senno di poi appaiono come la risposta del primato del progetto, che unisce tecnica, forma e colore, ai prelievi e ai combines della stagione Pop-New Dada. Che altro sono i “piattoni” di smalto, di oltre un metro di diametro, dai colori cangianti che acqua e luce provvedono a rendere caleidoscopio di colori, se non la risposta alta della tradizione all’avvento del rottame destinato a una nuova, peraltro legittima, preziosità di carattere filosofico e mercantile?
Per decenni alla Biennale De Poli espose al Padiglione Venezia riservato alle arti decorative: per scelta orientò talenti e propositi artistici all’estetica applicata, al design, all’arredo, alla decorazione. Consapevole del valore della sua produzione, che Gio Ponti aveva impalmato quale ideale complemento dell’estetica moderna, De Poli scelse la via dell’arte applicata ma era nato come pittore. Uscito dalla scuola d’arte di Padova, il Selvatico, aveva individuato nel veronese Guido Trentini il suo maestro e, infatti, quando giunse alla solidità novecentista di cui raccontano le mostre a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, conservò quel preziosismo linearistico e cromatico di origine secessionista che fu proprio del pittore amico di Casorati. Nel 1933 avvenne la svolta: troppi e mediocri pittori affollavano le mostre sindacali. Si staccò, con discreto furore com’era nel suo carattere, dal mondo dell’arte e si dedicò dapprima allo sbalzo su rame, imparato con la forgiatura del ferro alla scuola d’arte, e in seguito allo smalto su rame.
La complessità di questa cruciale figura del Novecento non era mai stata indagata in modo sistematico sino a quando non si è creata una sinergia virtuosa tra eredi e l’Università di Architettura di Venezia. Un’operazione esemplare che è sfociata in un volume di grande valore, sia per il metodo che per i saggi contenuti, e che finalmente fa luce su un artista che si volle artigiano e che divenne protagonista indiscusso dell’arte dello smalto, tecnica ed estetica fuse insieme e scientemente volte alla produzione allargata, non senza il sostegno di una adeguata strategia mercantile e comunicativa. “Paolo De Poli, artigiano, imprenditore e design”, è una monumentale monografia di 450 pagine edita dalla storica casa editrice padovana Il Poligrafo, frutto finale di una collaborazione stretta e proficua tra i figli, Evelina, Aldo e Giovanni, e docenti e studiosi dell’Archivio progetti dello Iuav cui gli eredi hanno donato il cospicuo archivio formato negli anni, con meticolosa cura e lungimiranza, dallo stesso De Poli.
Il libro dunque rappresenta il coronamento dello studio dell’archivio privato sul quale si sono innestate una pluralità di ricerche contemplate nell’indice dello stesso. Trenta capitoli tra contributi e apparati, un regesto completo delle opere che si giova della catalogazione puntuale dello stesso De Poli, un apparato iconografico-documentario ricco e utilissimo anche per illustrare la varietà dei contesti espositivi d’epoca, un’eccellente resa fotografica degli smalti, un taglio scientifico che rende sistematica e definitiva la ricognizione intrapresa. Il volume è a cura di Alberto Bassi e Serena Maffioletti, figure di riferimento dell’Archivio progetti, e si avvale di una fitta rete di contributi che indagano ogni aspetto della produzione di De Poli, da quelli più basilari della tecnica a firma di Valeria Cafà a quelli più estetici dei colori a firma di Manlio Brusatin, dalle navi di Susanna Bastardini all’arte sacra di Anna Mazzanti, dalla formazione di Giovanni Bianchi alle realizzazioni per il Palazzo del Bo di Marta Nezzo.
Centrale appare la dimensione del design indagata in una varietà di contributi che affrontano i temi, le forme, i contesti produttivi e il dibattito stilistico. Il rapporto con Gio Ponti rimane l’asse intorno al quale ruota buona parte del lavoro e del successo di De Poli. La collaborazione tra i due decollò nel cantiere dell’Università patavina per poi consolidarsi negli arredi delle navi firmate dall’architetto milanese e in una gran varietà di decorazioni e oggetti esposti alle Triennali e nelle maggiori mostre internazionali del settore. In realtà non si coglie la grandezza storica, oltre che estetica, di De Poli se non si comprende l’importanza delle arti decorative nella prima metà del Novecento che egli sostenne anche dal punto di vista teorico e comunicativo. Ne è prova l’esistenza stessa della Triennale alla quale l’artifex padovano partecipò per decenni come espositore (dal 1936 al 1973) ma anche come membro del consiglio d’amministrazione.
Gli anni Trenta furono gli anni fervidi del dibattito sullo stile moderno che rimbalzava nelle riviste d’architettura. Introducendo la Biennale del 1934 Maraini plaudiva alla sezione di arte decorativa che “mette in luce i mirabili risultati cui la perfezione tecnica moderna può giungere se sorretta e guidata dall’eletto senso dell’arte”. Al riparo dalle richieste di propaganda rivolte all’arte figurativa, prendeva quota la fortuna del design come progetto di forme originali e funzionali che qualificavano il gusto. De Poli possedeva i codici di una progettualità esclusiva che aveva a che fare con la bellezza accessibile, con il piacere dei colori smaglianti esaltati dalla luce.
Se la geometria trovava ampio consenso nel design di quegli anni, quanto mai felice poteva essere il recupero del piacere bizantino della superficie vitrea che ricopre il metallo e che traduce ai codici del buon gusto moderno, il sublime incanto delle icone in smalto cloisonné della Pala d’oro in San Marco. De Poli a tale risultato era pervenuto senza rinunciare né all’alchimia della tecnica né al miraggio della seduzione visiva e dunque possiamo comprendere il posto d’onore che occupava nel contesto progettuale di quegli anni.
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