È morto Alberto Statera una vita da giornalista libero

di STEFANO DEL RE
Caro Alberto, ora che ci hai lasciati tocca a me il coccodrillo. Lo avevi deciso un giorno a Roma in un momento di malinconia. Sarebbe toccato a chi dei due restava. Scrivo, ignorando tutte le buone regole che vietano pezzi in prima persona. Come raccontare altrimenti più di trent’anni passati insieme?
La nostra prima conoscenza, mi costò la casa. Non la proprietà, ovviamente, ma l’uso dell’appartamento in affitto nel quale vivevo a Sassari, dove ti avevo preceduto per partecipare alla rinascita della Nuova Sardegna acquistata dal principe Caracciolo. «Questo sì che è un appartamento, non come quelli che mi hanno proposto», dicesti guardando il mio alloggio enorme e squinternato, al tuo arrivo come nuovo direttore dall’Espresso - dov’eri, con Paolo Mieli, redattore capo del giornale diretto da Livio Zanetti.
Il risultato fu che ti trovasti una casa migliore della mia e io fui caldamente pregato dall’allora amministratore del giornale di trasferirmi nell’appartamento che in pompa magna ti avevano proposto e incautamente già affittato. Fu allora che prese quota il già aleggiante soprannome di Farouk. Soprannome, invero, immeritato, anche se riuscivi benissimo a non far nulla per scrollartelo di dosso. Ma le leggende, si sa, fanno parte del rumore della nostra professione. A contare restano i fatti.
E i fatti dicono che in Sardegna Alberto Statera ha ottenuto risultati eccezionali portando il giornale - fatto risorgere da Carlo Caracciolo, Mario Lenzi e Luigi Bianchi - ad affermarsi nell’Isola e in Italia come una delle realtà professionali e tecnologiche più innovative. E assumendo un gruppo di giovani cronisti che negli anni avrebbero fabbricato un giornale-gioiello.
A Milano invece Alberto mi è quasi costato il posto.
Avevo convinto Carlo Rognoni a prenderlo in Mondadori come condirettore a Epoca, ma l’editore Mario Formenton gli fece studiare un nuovo progetto di giornale col quale soppiantò Rognoni con un nuovo gruppo dirigente. La nostra nuova Epoca fu un giornale corsaro intelligente, irriverente e innovativo, forse il canto del cigno dei newsmagazine italiani. E qui nasce un altro soprannome.
Quando passai dall’altra parte dell’alveare-corridoio di Segrate a lavorare a Panorama con Claudio Rinaldi, Alberto per mesi mi salutava appena. Poi un giorno mi chiese a bruciapelo, «ma che è ’sta roba di Stukas?». Farfugliai vigliaccamente un «non lo so». “Stukas” - l’aereo che va in picchiata - era il soprannome che, perfidamente, Rinaldi dall’alto della - allora - corazzata Panorama, aveva affibbiato al brillante ma gracile magazine diretto da Alberto.
Ma i tempi felici alla Mondadori arrivano al termine: lodo, guerre legali e colpo di mano di Berlusconi. Rinaldi, già minato dal male che lo avrebbe poi portato via, andò a dirigere l’Espresso. Alberto andò a Repubblica a fare il redattore capo Economia per poi fuggire alla Stampa come editorialista, prima con Paolo Mieli e poi con Ezio Mauro col quale stabilì un rapporto di grande stima professionale che diede eccellenti risultati anche in seguito, a Repubblica.
Tornato direttore nei quotidiani veneti del gruppo Espresso, fummo di nuovo insieme per dieci anni prima tra Padova, Treviso e Venezia e poi a Trieste, al Piccolo appena comprato da Carlo Caracciolo e Marco Benedetto. Anni straordinari in giro per la provincia italiana a scoprire e valorizzare realtà come quella del Nord-Est che si affermavano e uscivano dal birignao del giornalismo nazionale.
Nel Veneto ci scontrammo col Gazzettino di Giorgio Lago, allora una portaerei e senza dubbio il miglior e più completo giornale inter-regionale d’Italia. Fatto fuori Lago dai suoi pavidi editori, lo prendemmo a bordo costituendo con lui, Ilvo Diamanti, Ferdinando Camon, Silvio Lanaro, Mario Isnenghi e tanti altri uno straordinario osservatorio politico-sociale sul più turbolento territorio d’Italia.
Anche qui il successo fu costruito grazie al lavoro di giovani cronisti di valore che non temono confronti con i loro migliori colleghi dei quotidiani nazionali.
A Trieste, dove accompagnammo gli anni del rinnovamento cittadino e regionale condotto da Riccardo Illy, insieme a collaboratori come Claudio Magris e Pier Aldo Rovatti, la scommessa fu quella di innestare la tradizione della stampa liberal-democratica e lo spirito da cane da guardia dei lettori, proprio della casa madre, il gruppo Espresso-Repubblica, in un giornale con una grande tradizione e una storia spesso diversa. Una scommessa ardua. Che Alberto realizzò in maniera esemplare alla guida di una redazione rinnovata, determinata e combattiva.
Statera è stato un direttore passionale, lucido, esigente. La scuola di Scalfari all’Espresso e, prima, la gavetta all’Agenzia Italia ne hanno fatto il giornalista completo e intransigente che tutti abbiamo imparato a conoscere. I suoi pezzi arrivavano all’essenziale entro le prime righe ed avevano sempre ritmo, scrittura e sostanza senza mai indulgere alla prosa.
Da direttore, uno dei suoi pregi maggiori, insieme a una sana insofferenza per le interferenze sindacali, fu il suo stare sempre accanto ai redattori. Difenderli a spada tratta da superbia di potenti e minacce legali. Mai con lui i suoi redattori si sono sentiti soli, come purtroppo capita. Statera era un direttore che decideva, osava, a volte sbagliava. E quando il giornale cadeva in errore, lo ammetteva, «per rispetto dei lettori».
Da editorialista, era lucido e aggressivo. Non dava scampo a “padrini del vapore”, politici corrotti, palazzinari, tromboni. All’Espresso con “Terzo Grado”, che condivideva con Paolo Mieli, ha contribuito a ribaltare il modo di intervistare i politici trattandoli senza ossequi e riguardi.
Fu in una sua intervista alla Stampa che Gianfranco Fini si lasciò scappare «Mussolini più grande statista del secolo». E, in seguito, sulla Repubblica rivelò dialoghi e manovre da basso impero dei “furbetti del quartierino”. Temi presenti anche nei suoi libri come “Storie di preti e palazzinari” degli anni Settanta fino al più recente “Il Termitaio”, che anticipa l’esplosione della malattia italiana dell’appalto.
Ma il meglio di sé, forse, lo ha dato alla fine, nella rubrica settimanale che scriveva su Affari e Finanza di Repubblica. I suoi pezzi sono stati fino all’ultimo affilati: rasoiate ai potenti di turno e agli inetti che si spacciano per nuovi. Una rubrica che costituisce un piccolo tesoro di giornalismo, intitolata “Oltre il giardino”. Un titolo malinconico, come, a volte, gli capitava di essere.
Ci mancherai molto.
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