“Favolacce”, l’Orso d’argento debutta on demand

I bambini non si accontentano. I loro occhi innocenti non possono sopportare una “terra dell’abbastanza”, quella dimensione popolata di adulti che reprimono i loro mostri sotto cappe di apparenza, lungo file di villette a schiera alla periferia di Roma dove ostentano esistenze “normali”. Eppure, i bambini conoscono la verità, la subiscono ogni giorno e con quell’abbastanza non vogliono scendere a compromessi. E allora lo scardinano con un gesto estremo di rifiuto, non vendicativo ma di istintiva consapevolezza.
Dopo il realismo di genere della loro opera di esordio (quel punto di partenza che è, appunto, “La terra dell’abbastanza”), i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo firmano con “Favolacce” un film inedito nel panorama italiano: una favola nerissima che brulica di squallore e mostruosità sotto una superficie da “velluto blu”, una distesa di case da “suburbia” americana mentre la canicola di agosto toglie il respiro. Il film, vincitore dell’Orso d’argento all’ultima Berlinale per la miglior sceneggiatura, sarebbe dovuto uscire in sala il 16 aprile ma l’emergenza Covid-19 ha squadernato i programmi. Quindi la scelta di debuttare direttamente on demand l’11 maggio (Sky, Timvision, Chili, Google play, Infinity, CG Digital, Rakuten) senza passare dal grande schermo. La prima volta per un film d’autore premiato a un festival.
Anche la conferenza stampa di presentazione di “Favolacce” si adegua ai tempi, con i registi e l’intero cast (tra loro anche Elio Germano) collegati in streaming per rispondere alle domande dei giornalisti in una inedita tavola rotonda online. «L’uscita on demand per noi non è un ripiego» esordisce Fabio D’Innocenzo. «La vedo come una ideale ripartenza perché il cinema ha bisogno di essere rivitalizzato quanto prima altrimenti tra un po’ saremo tutti morti. Certo l’esperienza della sala è irripetibile. È come guardare una partita di calcio: viverla allo stadio o vederla in tv non sarà mai la stessa cosa. Però come questo è importante che “Favolacce” arrivi al pubblico, anche in modo alternativo».
L’attualità porta inevitabilmente il dialogo sugli aspetti extra-cinematografici e sulla crisi dell’industria. Elio Germano ammette di essere fortunato: «Posso permettermi di non lavorare ma molti altri attori e i comparti più fragili del settore devono essere tutelati perché, a livello legale, è come se non esistessero. Per il nostro mestiere non esiste un protocollo sanitario: non possiamo fare i film con guanti e mascherine». In “Favolacce” Germano è un padre di famiglia dai lineamenti rancorosi, spaventato dall’idea di perdere il suo status di piccolo borghese, ma allo stesso tempo insoddisfatto di ciò che ha. La paura è un elemento centrale di un film che Damiano D’Innocenzo definisce archetipico. «Non ci interessava la cronaca» spiega. «La cronaca viene archiviata mentre l’archetipo e i simboli restano. Il nostro film ha molti riferimenti alla pandemia che stiamo vivendo come l’isolamento e la smania di evadere». Eppure, allo spettatore non viene data lacuna via d’uscita, a cominciare dall’ambientazione. «Non volevamo dare troppi riferimenti geografici» aggiungono i registi. «Così il pubblico non è tentato di pensare che quella realtà non lo riguardi e non gli appartenga. Per noi il film deve essere una esperienza sommaria che si ama o si odia: adoriamo il cinema divisivo che non accontenta tutti».
Un approccio coraggioso che i fratelli D’Innocenzo cercheranno di portare anche in tv, con una loro serie noir che stanno scrivendo per Sky. «Sembra un’utopia perché il piccolo schermo, per definizione, ha ambizioni ecumeniche. È una sfida che affrontiamo con grande rispetto e paura». Ancora la paura, contrapposta alla istintività dei bambini protagonisti che i registi hanno custodito per molto tempo prima di raccontarla, avendo scritto il film quando avevano solo 19 anni.«Quando sei bambino arrivi alla verità senza troppi passaggi. Crescendo abbiano capito che l’intuito è la salvezza. I nostri piccolo protagonisti si cibano di quello e fanno una scelta istintiva per non entrare nel tritacarne della vita. È il loro modo di parlare in un mondo come quello di oggi che, anche in piena pandemia, vede sempre gli stessi imporsi e occupare la scena. Chi non ha voce, come i bambini, gli anziani, i detenuti, resta sempre indietro». —
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