Il congedo mestruale è un modo per emarginare le donne e ci ricorda quei Paesi dove sono considerate contaminate

Nel grande mondo delle eguaglianze, nel tentativo teorico di rivendicazione della parità di genere, affiora improvvisamente quel bisogno sottile e non risolto di rivendicare le differenze, confuso stranamente con il mondo dei diritti. Il cosiddetto “ciclo” nel mondo femminile designa l’inizio del processo e della capacità riproduttiva che ha però un suo tempo e sue caratteristiche soggettive, termina con l’evoluzione cronologica della donna e introduce la fase della menopausa così poco amata dalle donne, non solo perché termina la capacità riproduttiva, ma perché anche la psiche la elabora come un tempo regressivo e sostanzialmente involutivo.
Il dolore del ciclo è il pretesto per chiedere da parte di un gruppo politicamente schierato di rivendicarlo evocando questo atteggiamento in alcuni paesi occidentali, ossia la possibilità di tre giorni di malattia retribuita con la giustificazione della difficoltà produttiva.
Dibattito distratto da problematiche ben più complesse anche se, come ogni tema, degno di rispetto e riflessione.
Difficile stabilire la fisiognomica del dolore, perché a questo punto si dovrebbero aggiungere le problematiche della prostata maschile o di altre complesse contaminazioni che limitano le capacità produttive.
Il ciclo femminile non è l’unico motivo del dolore, ci sono le grandi cefalee, ci sono i grandi disturbi particolari (artrosi, osteoporosi ecc.). Si apre, in altri termini, un capitolo complesso, con la consapevolezza che in confronto ad anni di lotta per la parità dei sessi, questa rivendicazione del dolore mestruale non sia nemmeno gradita al mondo femminile.
Il merito di questa rivendicazione ideologica del problema, che poi non è nemmeno tale se non nella testa delle deputate che l’hanno proposta, è quella di aver toccato un tabù, una parte intima, separata, complessa, odiata e amata nello stesso tempo dal mondo femminile, ma in ogni caso la parte biologicamente non controvertibile che ne caratterizza anche l’identità. Nell’anoressia, ad esempio, il ciclo scompare ed è guardato questo evento con un carico d’angoscia, così come la sua scomparsa nell’inizio della menopausa è fonte viceversa di sentimenti malinconici.
Il mondo maschile si è adattato a questo evento, ne fa parte, ed è soggettivo come viene vissuto nella relazione. Va sottolineato che da poche settimane è in onda sui media una pubblicità di assorbenti e sono gli uomini a parlarne, a spiegarne l’uso, e a comunicarne l’efficacia. Evoluzione dei tempi, sicuramente è ancora una rottura di un tabù, un cambiamento culturale che vorrebbe proprio che il “ciclo” diventi parte integrante senza pregiudizi nella relazione tra uomo e donna.
Fuori tempo, pertanto, il diritto a voler dare al ciclo femminile un’idea così delegittimante, facendo catapultare le donne dentro una visione di un diritto ingombrante che crea un’accentuazione sul mondo delle differenze, in un momento in cui il problema del femminile va verso un’idea della parità. Questa richiesta ideologica va ad allinearsi, purtroppo, ad una visione culturale presente in alcune civiltà, dove questo momento della donna viene vissuto come contaminante e relegato nel pregiudizio più profondo.
Si spera che le donne giudichino questa proposta, più politica che reale, con il giusto equilibrio. Ciò che stride in questo dibattito è la percezione che venga evocato qualcosa di anacronistico che inconsciamente fa stare le donne lontane dalla loro forza e dalla loro realtà storica, che va sempre più verso l’eguaglianza e non verso la diversità.
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