La missione politica del Nievo poeta

Nella sua “Storia d’Italia” Mario Isnenghi sottolinea come, dopo il Risorgimento, due grandi romanzi potessero contendersi il ruolo di “opera mondo” capace di interpretare la Nuova Italia: “I Promessi Sposi” di Manzoni e “Le confessioni di un Italiano” di Nievo. Come sia andata lo sanno tutti. Il moderatismo cattolico di Manzoni è diventato istituzionale, il laico e democratico Nievo, forse perché troppo politico, è sempre stato il grande dimenticato. La pubblicazione, a cura di Attilio Motta, docente di Letteratura italiana all’Università di Padova, degli “Scritti politici e d’attualità” (Marsilio, pagine 756, 38 euro) di Ippolito Nievo, nuovo capitolo della fondamentale edizione nazionale, chiarisce con precisione il legame che vi è in Nievo tra scrittura e politica: «Dunque crepiamo ma scriviamo» afferma lo scrittore padovano nel 1858. «La letteratura che non isfama un letterato può nutrire una generazione e ingigantirne un’altra».
Nievo sembra avere chiaro il ruolo dell’intellettuale. Non è il “poeta-soldato” della tradizione nazionalista e poi fascista, è piuttosto un “poeta-politico”, che nonostante la giovanissima età ha chiari i rischi di una Unità incompiuta.
Attilio Motta, nella sua nitida introduzione sottolinea come Nievo sia in difficoltà quando deve autodefinirsi, forse perché la sua posizione non è riconducibile a uno schieramento, culturale o politico che sia. Lontano dal socialismo, è però sensibile alla centralità della questione sociale. Non credente, è consapevole del ruolo che possono svolgere i parroci di campagna nella formazione di una coscienza sociale e politica. Nievo incarna dunque un’idea alta di democrazia, come appare già nel suo primissimo scritto pubblicato a neppure vent’anni: interviene su un giornale conservatore per criticare un articolo di fondo antiebraico, ma soprattutto lo fa sottolineando la illogicità di un ragionamento che condanna un popolo sulla base dell’operato di singoli. E nei suoi articoli politici, come nei due brevi saggi, uno edito e uno inedito, Nievo ha sempre presente, come sottolinea Motta, il “qui e ora”: non scrive per i posteri, scrive per cambiare le sorti politiche negli anni decisivi per l’Unità italiana. C’è poi, in questo volume, il Nievo giornalista d’attualità: quello che difende gli studenti padovani accusati di pensare a divertirsi invece che a studiare; oppure quello che ironizza sulla nascente moda dei bagni, con la creazione del Lido che coglie come svolta nell’economia lagunare. Venezia è la sua città, politica si intende, perché identitariamente dice di non essere «né di Padova, né di Mantova, né friulano». Però certo è nato veneziano e muore italiano, come dice l’incipit delle “Confessioni”, sia pur con un senso di fallimento. Lui che con Garibaldi ha fatto, combattendo, l’Italia, poche settimane prima di morire, a trent’anni, scrive un ultimo articolo, per raccontare la delusione per la ormai inevitabile esclusione di Venezia dal nuovo Stato. Lo fa con parole ancor più dolenti perché mascherate per sfuggire alla censura: «Io dunque ho capito che per quest’anno non c’è altro da fare, che bisogna aspettare la cenere della quaresima e digiunare da buoni cristiani fino alla Pasqua di risurrezione».
Nicolò Menniti-Ippolito
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