L’addio silenzioso di Bussotti, ora Padova saldi il suo debito
“Le esequie si sono svolte nell’intimità familiare...”. Così, alcune settimane fa, a cinque giorni dalla morte, un necrologio dava la notizia, in una città ottusa nella morsa del caldo, della...
“Le esequie si sono svolte nell’intimità familiare...”. Così, alcune settimane fa, a cinque giorni dalla morte, un necrologio dava la notizia, in una città ottusa nella morsa del caldo, della scomparsa del novantunenne Renzo Bussotti. Discreto fino alla fine, nella sua dimensione privata Renzo è invece stato, nella sua scomoda pittura e nelle ceramiche degli ultimi anni, uno dei più grandi “urlatori” della condizione umana che ha avuto l’arte italiana ed europea dal dopoguerra ad oggi. In lui tutto contraddiceva le mode, gli ismi, le esibizioni mediatiche e le mostre commerciali.
Nato a Firenze nel 1925, e cresciuto in Toscana fino alla guerra dove combattè come partigiano, arrivò poi a Padova, fuori Porta Savonarola, costruendosi una casetta e una grande baracca di legno per dipingere di fronte alla casa dello zio materno Tono Zancanaro, che faceva già parlare di sé in quegli anni della rinascita e del “realismo”.
Il tutto, mentre il fratello Sylvano stava diventando uno dei protagonisti della nuova musica italiana.
Quella di quei tempi era una Padova vivacissima, un crocevia di idee, dove l’università di Concetto Marchesi, di Egidio Meneghetti, di Ettore Luccini e di giovani come Andrea Zanzotto si contaminava con la Sinistra e con Circoli come lo scomparso “Pozzetto”, dove passavano tutti, italiani e non, come un allora sconosciuto John Cage. Bussotti, all’infuori di una piccola cerchia tra cui la famiglia Brisighella che gli commissionò il soffitto della loro casa in via Santa Lucia e Giuliano Lenci, viveva appartato e letteralmente sprofondato nella sua pittura e in un’intensa opera incisoria tutta da riscoprire. Un mondo essenzialmente tragico, drammatico, “antigrazioso”, fatto di continui scavi sulla figure e soprattutto sui volti, un mondo dove prevaleva la preoccupazione per le guerre e l’atomica e le grida inascoltate, rese da pennellate e da segni mai indulgenti o accattivanti.
Opere poco vendibili, a differenza di un altro impegno di maniera che prevaleva allora con successo nel panorama nazionale.
Più che parlare solo “italiano”, la sua pittura saldamente radicata nel grande espressionismo europeo, è stata come un prolungamento di quel Grosz che si inleziosì in America, del Dubuffet dei primi anni e della grandiosa stagione del “Gibbo” di Tono politico.
Negli anni ‘80, malgrado la differenza di età e il suo riserbo, lo frequentai per qualche tempo, fino a fargli fare come sindaco, a Cadoneghe, una grande antologica padovana nei locali della biblioteca intitolata a Pasolini, prima di consegnarla all’attività definitiva. Poi purtroppo avemmo pochi incontri sporadici lungo le strade di Padova che egli percorreva a lungo a piedi, come per catturarne l’essenza più intima.
Di lui mi piace ricordare un suo grande quadro nell’anticamera del sindaco Zanonato.
Confesso che negli ultimi anni mi è anche capitato di ronzare a lungo intorno alla sua casetta di via Francesco Baracca per spiare le incrostazioni ceramiche esterne, che parevano accumularsi per gemmazione e che spero siano salvate e fatte vedere a tutti i padovani.
Non ho mai avuto il coraggio di premere il campanello. Lo sapevo malato e stanco, avevo paura di disturbare e forse ho sbagliato.Ora che non c’è più Padova può e deve pagare il suo debito con questo scomodo “maledetto” toscano, trapiantato per cinquant’ anni e con onore in terra veneta.
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