Nel delitto di Vasto un legame d’amore come simbiosi e la sconfitta delle leggi che il sentimento popolare non riconosce più

È in una Italia debole e fragile, confusa e compromessa che la frustrazione sociale produce le sue vittime, organizza la violenza sottile e legittima le parole di sangue che sembrano restituire a una...

È in una Italia debole e fragile, confusa e compromessa che la frustrazione sociale produce le sue vittime, organizza la violenza sottile e legittima le parole di sangue che sembrano restituire a una collettività silente un rito antico: il delitto, la morte, la legge antica del contrappasso (legge del taglione), il sangue con il sangue. Il delitto di Vasto tocca diversi dolorosi problemi all’interno del nostro complesso organismo sociale: il macismo oramai consolidato in un certo tipo di pensiero collettivo, il ritorno a meccanismi ancestrali primitivi che non sono stati mai analizzati né metabolizzati, e il legame d’amore come simbiosi, come patologia, come incapacità ad accettare che il progetto sentimentale possa svanire.

I femminicidi sono anche questi, l’incapacità ad affrontare il grande complesso mondo del lutto, della separazione, del rifiuto; di fatto è la vita stretta nell’ossessione della felicità, del progetto magico, il legame simbiotico quasi infantile su cui riversare tutto se stesso.

In questa tragedia la visione della vita è in contrapposizione con il reo, colpevole di aver interrotto e rubato i sogni e i desideri.

Nella vicenda di Vasto c’è anche la sconfitta delle leggi, troppo interpretabili, con poco senso della realtà, un confine che troppe volte si incaglia nella demagogia giuridica, così che si va costruendo un’idea popolare secondo la quale non solo le leggi non vengono applicate, ma il desiderio di giustizia è sentito come una parola oramai priva di significato.

In questa vicenda c’è un’idea irreale di perdono, un contenuto molto demagogico di riparazione; in realtà la storia dell’umanità insegna che la parte razionale del concetto di pena va a scontrarsi con la verità, in cui l’individuo accetta la morte provocata da altri e all’interno di questo evento c’è l’istituzione che si pone come superpartes, a decretare la pena e a sanare il lutto.

La vendetta è un sentimento interno, va a compensare il dolore, l’offesa, è un meccanismo psicologico per disinnescare il quale bisognerebbe smantellare tutta la storia dell’evoluzione sociale su cui si sono retti gli equilibri dell’umanità stessa.

Quanto alla pistola portata sulla tomba dal vedovo diventato assassino, è il tributo a se stesso e non solo dell’adorata moglie. Uccide per se stesso, non certamente per una volontà di vendetta prodotta dalla famiglia o dal ricordo della moglie tanto amata. C’è sempre la solitudine alla base, sono amori esclusivi che diventano ossessivi, se guardiamo all’individuo. Ma è pur vero che se si interrompe quel rapporto sacrale tra cittadino e Stato, se la fiducia diventa oltraggio, allora questa storia tragica, ma che disegna in modo perfetto la verità di quello che sta accadendo nel nostro tessuto sociale, va interpretata per quello che è - vendetta, un’idea malsana d’onore - consapevoli però che non sarà certamente l’ultimo. È la reazione di una parte della nostra società che cerca di darsi risposte, che legittima il sangue, che lo enfatizza, dentro il bisogno non dichiarato di restituire all’individuo i propri diritti, che riguardano proprio il grande mondo del diritto e della difesa dall’offesa.

Dentro questo delitto c’è la solitudine del reo, la mancanza di prevenzione nel non dare risposte, un’anima persa nel mondo superficiale di chi giudica senza essere giudicante. La morte va rispettata, e nel caso degli omicidi stradali, questi sono il risultato anche dell’incapacità sociale di avere un Paese che dia la giusta pena, una sorta di riparazione al bisogno di coerenza e giustizia così persa nel nostro mondo contemporaneo.

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