Viaggia il Veneto Conoscere la propria terra è come innamorarsi

Cercare il buono nella pandemia è rischioso, finisci per fare come Bertoldo, che ride quando grandina per il sole che arriverà dopo. Però è un esercizio necessario: ci impone di vivere il nostro tempo. Rimpiangere quando si girava senza mascherina, o sognare il giorno in cui arriverà il vaccino, sono azioni che ci levano il diritto e il dovere di vivere il presente che ci è dato. La limitazione degli spostamenti e la chiusura di molte frontiere ci ha obbligati a riscoprire la gita fuori porta: l’elogio di questo turismo di prossimità si può costruire su più argomentazioni.
La prima la ripesco dalla tradizione veneta: pal secco xe bona anca ea tempesta. Vivo ai piedi del Grappa: durante il lockdown, quando per ironia della sorte abbiamo avuto una lunga sequenza di giornate serene, guardavo il profilo del Massiccio: quanto mi mancava! Eppure tante volte, quando eravamo liberi, ho preferito mete più lontane, perché in fin dei conti il Grappa è sempre lui. Mi sbagliavo, e non appena ho potuto sono andato a ripassarmi le camminate verso le quali per tante settimane avevo nutrito così tanta nostalgia.
La seconda difesa del turismo domestico si è colta nelle puntate della serie “Viaggia il Veneto” che oggi si chiude: non esiste luogo, anche il più caro e il più noto, che non abbia più nulla da dirci. Non si tratta solo di un discorso storico e artistico, che già motiverebbe questa affermazione, vista l’infinita complessità della nostra terra. Il fatto è che, in qualche modo, la conoscenza dei “luoghi del cuore” è come la conoscenza biblica, ha a che fare con l’alchimia del desiderio, con l’eros.
Quando conosco un luogo, imprimo la mia mano nella creta morbida della sua bellezza: la tocco, la penetro, ma quella che lascio è la mia impronta, unica e irripetibile. Il modo che ho di visitare la “mia” Padova ricalca, a distanza di decenni, le rotte e gli itinerari della mia storia personale e familiare: conosco meglio il Santo di Santa Giustina, preferisco l’Arcella al Portello, amo percorrere via San Francesco, Riviera Paleocapa mi lascia più indifferente. Insomma, per conoscere bene un posto non possiamo permetterci la solitudine, dobbiamo accettare la sfida di ascoltare le storie, le emozioni, gli innamoramenti di altre persone con quel luogo, e scopriremo le infinite declinazioni di bellezza che una stessa città, una stessa montagna, uno stesso fiume possono donarci.
Ultima difesa del turismo vicino casa: fino a due generazioni fa era facile crescere in spazi in grado di parlarci. Senza arrivare al filò, che legava saldamente le nuove generazioni alle tradizioni e ai culti di un preciso contesto, ancora negli anni Settanta e Ottanta crescere in uno spazio significava, poco o tanto, conoscerlo, farci esperienza di gioco (spesso irresponsabile e pericoloso), sentirne, nel bene e nel male, l’appartenenza. Oggi, altrettanto nel bene e nel male, i figli del nuovo millennio vivono in una iperconnessione che annulla gli spazi, è normale giocare on line con un coetaneo del Regno Unito e non aver scambiato una parola col vicino di casa. Sono poi più tutelati negli spostamenti, non è raro che fino ai 18 anni un ragazzo non abbia conosciuto il territorio in cui vive. Lo ha visto dai finestrini dell’auto dei suoi, o del pullman che lo portava a scuola. Infine, visto che spesso anche i genitori sono in parte sradicati, questi ragazzi non hanno occasioni di incontro con il territorio durante il weekend o le vacanze.
Insegno da anni in un liceo di Bassano, e quando incontro una nuova classe faccio una domanda. Quanti sono stati almeno una volta all’estero, e quanti sono stati almeno una volta in Cima Grappa. Tutti sono stati all’estero. Se va bene metà classe è stata in Cima Grappa. Ma perché è importante per un ragazzo conoscere il territorio in cui vive? Se lo conoscerà, almeno qualcosa di quel territorio lo innamorerà, e, una volta cresciuto, quel luogo gli parlerà di sé, sarà un giardino segreto, un posto delle fragole. Se poi un bambino viene educato ad amare il proprio spazio, una volta cresciuto magari ci penserà due volte prima di trattarlo male. E forse educare le nuove generazioni all’amore per i tesori che abbiamo drio man li porterà a fare un po’ più di fatica ad abbandonarli per emigrare. Ma possiamo stare tranquilli: alle ultime giornate del Fai ho seguito le ottime spiegazioni di due ciceroni davvero bravissimi, due studenti, immigrati di seconda generazione, un pakistano e una marocchina. Perlomeno il diritto a conoscere il proprio territorio è libero e accessibile, a differenza del diritto di cittadinanza. —
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