Viaggio nel realismo magico L’Italia di Alice Rohrwacher

Giunta al suo terzo film Alice Rohrwacher mostra una sensibilità registica consolidata e affida a “Lazzaro felice” (in concorso a Cannes, premiato per la miglior sceneggiatura) un’immagine dell’Italia - e del suo cinema - pulita, genuina, ma anche svagata ed eroica.
Parte come un film di Ermanno Olmi, “Lazzaro felice”, e finisce come un’opera del neorealismo più magico del duo De Sica-Zavattini. In mezzo c’è una vicenda che ha un’origine storica, nel “grande inganno” che la marchesa Alfonsina de Luna mise in atto nella sua piantagione di tabacco, in Maremma, dove aveva relegato tre famiglie, 54 persone come schiavi. Cosa che accadde realmente: approfittando dell’isolamento delle sue proprietà, la marchesa teneva i contadini all’oscuro dell’abolizione della mezzadria, anche quando i contratti furono convertiti in impieghi. In mezzo a quella comunità contadina c’è Lazzaro, un ragazzo che non sa di chi è figlio ma che è sempre positivo nella sua ingenuità totale. Un’ingenuità profondamente letteraria e quasi divina: tra l’idiota di Dostoevskij e il puro folle, il Parsifal wagneriano, Lazzaro si evolve sempre più verso una santità che lo porta a risorgere come la figura che evoca il suo nome. Con un tocco francescano, nell’introduzione altrettanto fatata della figura del lupo, che lo risveglia da un lungo sonno, dopo la caduta da un dirupo. Ma nel frattempo sono passati dieci anni, la famiglia si è dissolta e alla tenuta non c’è più nessuno. Ritroviamo gli ex mezzadri cresciuti (tra essi Alba Rohrwacher, sorella della regista) e sempre marginali, ai bordi di una metropoli. O meglio li ritrova quasi per caso Lazzaro, che invece mantiene sempre la stessa età, divinamente. Ed è qui che il film cambia registro assumendo i toni della parabola laica in cui un’umanità variamente sofferente affronta la vita quotidiana con un senso di bontà sproporzionato, non tanto in sé, quanto per gli altri, totalmente privi di sensibilità.
Dietro Lazzaro (svagato e così presente il volto di Adriano Tardiolo), e il suo farsi carico dei destini del mondo, c’è l’inadeguatezza sociale dei personaggi pasoliniani, troppo buoni - e lucidi - da diventare scomodi. È questo senso di infinita irresolutezza che ci trasmette il film, anche per un certo avvitarsi su se stesso nel sottofinale, ma che è in realtà voluto: dopo “Corpo celeste” e “Le meraviglie”, Alice Rohrwacher conferma una sensibilità estetica e morale alta, unita a scelte di regia coraggiose e non convenzionali.
Durata: 125’. Voto: *** ½
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