Viaggio nel tempo alla scoperta del volto degli dei

L’idea della divinità e le sue prime rappresentazioni umane. È dedicata a questo tema affascinante la nuova mostra archeologica della Fondazione Ligabue - presentata ieri a Milano - e che sbarcherà a Venezia dal 15 settembre al 20 gennaio 2019, a Palazzo Loredan dove ora si sta concludendo un’altra magnifica mostra dell’istituzione come “Il mondo che non c’era” (fino al 30 giugno), dedicata invece alle civiltà precolombiana.
“Idoli. Il Potere dell’immagine” - curata da Annie Caubet, conservatrice onoraria del Musée du Louvre, che l’ha presentata ieri con Inti Ligabue, presidente della Fondazione omonima, il professor Stefano De Martino del Dipartimento di Studi Storici, Università degli Studi di Torino e Alessandro Marzo Magno, direttore della rivista “Ligabue Magazine” - illustrerà questo viaggio nel tempo e nello spazio della rappresentazione antropomorfa della divinità, dal Tardo Neolitico all’Antica Età del bronzo (tra il 4000 e il 2000 avanti Cristo) prima in chiave femminile e poi maschile.
In esposizione oltre cento reperti - molti dei quali assolutamente straordinari - dalla penisola iberica alla Valle dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico fino all’Estremo Oriente, e con un nucleo di opere sarde importantissime, con importanti prestiti da musei stranieri assieme a una serie di opere della collezione Ligabue. «L’ipotesi che il Dio padre di tutte le religioni monoteiste fosse stato in origine una Dea Madre iniziò a delinearsi dopo la scoperta delle prime veneri paleolitiche, dove il corpo femminile era sentito come centro di forza divina. Proprio in quel momento, tra Paleolitico Medio e Superiore, si pensa si siano verificati nello spirito e nella coscienza dell’uomo, determinati mutamenti di struttura della psiche. Alla fase dell’inconsapevolezza si contrappone una sorta di pulsione che gli specialisti oggi attribuiscono a un rapido evolvere della coscienza. Nasce un concetto di religiosità. L’uomo aveva scoperto di avere un’anima».
Sono le parole di Giancarlo Ligabue, in uno dei suoi ultimi studi, che suo figlio Inti ha ricordato ieri per presentare questa mostra che avrebbe certamente amato e che espone tra l’altro quella statuetta Battriana del III millennio avanti Cristo acquistata dal collezionista, archeologo e paleontologo veneziano agli inizi degli anni Settanta e diventata famosa anche grazie agli studi importantissimi da lui condotti in un’area del Turkestan afghano a cui è stato attribuito non a caso il nome di famiglia: la cosiddetta “Venere Ligabue” .
Il tipo più antico esposto in mostra - come ha ricordato la curatrice - è la cosiddetta “Grande Madre”, ereditata da una lunga tradizione neolitica, nuda e massiccia, che occupò lo scenario iconografico del mondo antico - con esemplari esposti provenienti da regioni distanti tra loro come la Sardegna, le Cicladi, Cipro e l’Arabia - sino all’arrivo di nuove rappresentazioni del divino alla fine del IV millennio avanti Cristo. Poi, con l’avvento dei centri urbani tra il 3300 e il 3000 avanti Cristo , cambia anche la “silhouette” della divinità, con due tendenze opposte e complementari. Da una parte l’astrazione e la schematizzazione estrema, dall’altra un tipo di rappresentazione più realistica, ma comunque idealizzata dell’idolo. Dalle figure a forma di violino delle Cicladi, ai capolavori di bellezza idealizzata della cultura mesopotamica di Uruk, come la cosiddetta “Dama di Warka”. Ma non mancherà anche un tuffo nel divino egizio, con una squisita statuina nuda scolpita in lapislazzuli rinvenuta a Hierankopolis. O una serie di idoli oculari, sempre risalenti al 3000 avanti Cristo, provenienti dell’Asia Occidentale. O le teste di statuette votive maschili e femminili, di mezzo millennio più tardi, in basalto o cristallo di rocca, ritrovate in Mesopotamia. Solo alcuni esempi di una mostra archeologica che si annuncia già come memorabile.
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