Caselli: il Veneto è gia terra dei fuochi, serve una task force contro gli avvelenatori
PADOVA. La premessa è che quella del Veneto è una storia di uno sviluppo tumultuoso, che, tuttavia, ha fatto del Nord Est una locomotiva economica del Paese. Ricchezza e benessere hanno, perciò, alimentato l’appetito della malavita che si è insinuata nel tessuto sociale, imprenditoriale e politico cambiandone la faccia».
Gian Carlo Caselli, 79 anni, ex procuratore della Repubblica a Palermo quando vennero arrestati i boss Leoluca Bagarella, Gaspare Spatuzza, Giovanni Brusca e i fratelli Graviano è oggi uno tra gli esperti di agromafie e promotore del nuovo diritto penale agroalimentare, strumento di difesa dei consumatori.
In questa rara intervista (con la collaborazione del prof. Stefano Masini e del generale dei carabinieri Giuseppe Vadalà) affronta i problemi legati alle agromafie e all’avvelenamento del territorio nel Veneto, chiarendo anche i pericoli presenti e futuri e che le popolazioni del Nord Est dovranno affrontare, suggerendo una serie di sistemi di controllo per evitare il proriferare delle “terre dei fuochi” nella nostra regione.
Parliamo di Pfas. In Veneto 250 mila persone sono rimaste contaminate da sostanze perfluoroalchiliche prodotte per scopo di lucro e rilasciate nelle falde acquifere. Qual è il suo giudizio sulla gestione di questa emergenza?
«La parte agricola è quella che paga, ancor oggi, maggiormente il prezzo, per le cicatrici di un paesaggio sempre più urbanizzato, per le esalazioni di fabbriche poco virtuose dal punto di vista ambientale, per lo scempio del territorio con infrastrutture iniziate e mai finite. Nel caso dei Pfas, che hanno inquinato le falde tra Vicenza, Verona e Padova, i primi a sottoporsi agli esami sono stati proprio gli agricoltori che hanno fatto analizzare i pozzi per verificare la corrispondenza con i limiti dei residui ammessi. Un vero e proprio atto di responsabilità, considerando che per prime le latterie in caso di inquinamento mai avrebbero ritirato il latte munto nelle stalle. Ora resta solo il divieto di cibarsi di pesce d’acqua dolce nei 21 comuni della zona rossa e l’industria Miteni è in gravi difficoltà economiche. I continui rimpalli tra governo e regione, la discussioni su diversi livelli di sicurezza non hanno aiutato le indagini e neppure a fare trasparenza».
Problema dell’inquinamento di aria, acque e terreno. Il Veneto si è trovato all’incrocio tra grandi vie del mafia-business, droga e armi: Balcani e rotta italiana. Secondo lei è anche sulla rotta dei rifiuti tossico nocivi, delle agromafie e delle ecomafie?
«Il Veneto storicamente è terra di rifiuti. E purtroppo anche di mafie. Già nel 1994 la Commissione parlamentare antimafia lanciava un allarme inascoltato per lunghi anni, descrivendo “un indissolubile legame tra criminalità organizzata e tessuto economico”.
L’ultimo rapporto Ecomafie di Legambiente conferma la presenza del business legato al traffico illecito di rifiuti in Veneto, con particolare preoccupazione per quanto riguarda gli incendi degli impianti o capannoni in cui vengono stivati rifiuti la cui provenienza è del tutto priva di tracciabilità e che vengono eliminati con i roghi».
Abbiamo indagini in corso che cercano di arginare il fenomeno?
«Numerosi sono i procedimenti per traffico illecito hanno interessato le società venete. In Veneto le ecomafie sono quelle stanziali e quelle di passaggio, che legano la loro attività ai traffici con i paesi esteri quali la Slovenia o quelli che si raggiungono tramite le spedizioni internazionali.
Quello ambientale è un business. La mafia ha cambiato modo di fare e ha allargato il giro degli interessi. Il fenomeno è sempre meno visibile, ma è più insidioso e più radicato negli affari. Ma non solo: è evidente la partecipazione (il concorso così detto esterno) di studi privati, consulenti, architetti; con la complicità di faccendieri l’economia assume una curvatura verso ambiti più profittuali. Ciò diventa, però, anche una questione morale».
Le mafie hanno tentato di costituire “terre dei fuochi”, cioè discariche fuori controllo in Veneto?
«La presenza sul territorio della criminalità campana viene da lontano.
La presenza del grande comparto dell’industria chimica ha lasciato profondi segni nel territorio, proprio per via dell’enorme quantità di rifiuti tossici che sono stati prodotti. Molti di quei rifiuti sono seppelliti proprio nei luoghi di origine del rifiuto, a creare una vera e propria terra dei fuochi. Ed altrettanti sono stati disseminati in molte zone d’Italia o inviati all’estero, quando non finiti in fondo al mare nelle numerose navi che sono affondate negli anni ’90, con l’occhio supervisore delle mafie.
Tra le indagini più recenti si pensi a quella che ha interessato il territorio di Ca’ Emo, tra Adria e Rovigo, dove finivano i fanghi della Toscana, proprio come negli anni Novanta, quando i rifiuti della Toscana venivano inviati nella “terra dei fuochi” campana, gestita dalla Camorra.
La propria terra dei fuochi dunque il Veneto la sta già vivendo. Basti pensare anche alle discariche abusive in procedura di infrazione, che soltanto oggi, dopo anni ed anni di abbandono, sono oggetto di bonifica, dopo aver seminato nel territorio veleni».
Negli ultimi mesi si assiste al tentativo delle mafie di creare vere e proprie discariche di veleni incontrollate nella miriade di capannoni industriali dismessi di cui il Veneto si è imbottito negli anni del boom. Un fenomeno che porta i veleni nel “cortile di casa” di molte famiglie. Sono queste le “bombe ecologiche” del prossimo futuro?
«Ormai gli interessi della camorra, così come delle altre mafie tradizionali, sono spalmati su tutto il nostro territorio nazionale, con grande interesse per le zone che, fino a pochi anni fa, hanno trainato l’economia, come il Veneto. È indubbio che il know-how del settore rifiuti sia da decenni nelle mani di aziende o soggetti che, seppur coinvolti in vicende giudiziarie, sono ormai specializzati nell’impiantistica, nei trasporti e nella gestione di ogni tipologia di rifiuto. Questa è già realtà odierna. Non solo il futuro prossimo».
L’ecobusiness, da nord a sud, dunque gestisce il percorso del rifiuto, e quando non è possibile trattarlo in maniera, anche se spesso soltanto apparente, legale, allora interviene lo smaltimento illegale nei capannoni, con successivo incendio.
Come può rispondere un territorio che cerca di difendersi dai nuovi avvelenatori?
«La prevenzione ovviamente è sempre utile, ma occorre in ogni caso una controffensiva valida. Il metodo più efficace è quello di effettuare controlli nelle aziende, e far ripartire il più velocemente possibile un sistema di tracciabilità dei rifiuti, prevedendo una concreta azione delle forze di polizia specializzate ed un presidio del territorio . È inoltre necessario, vista l’elevata casistica di incendi di siti di stoccaggio, prevedere l’individuazione di una task-force specializzata, che effettui un’analisi del fenomeno nella sua globalità, inserendolo in un contesto più amplio, che ne delinei le motivazioni, per poter prevedere e bloccare una ulteriore deleteria espansione. Soltanto con la certezza di una approfondita analisi e relativa sicurezza della movimentazione dei rifiuti in entrata ed uscita dalle aziende e dagli impianti, lo Stato può tornare ad essere un credibile garante per i cittadini e tutelare i territori». —
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