Candotti lascia la società «Tornerò da tifoso in curva»

PADOVA
Sono passati appena quattro giorni dall’annuncio delle dimissioni di Massimo Candotti che dopo 18 anni lascia l’incarico di addetto stampa del Padova. Quattro giorni nei quali è stato travolto dalle dimostrazioni di affetto dell’intero ambiente, dai tifosi alle istituzioni, passando per giornalisti, colleghi e tanti ex. Un forte sentimento popolare che raramente si era visto per l’addio di giocatori, tecnici o dirigenti.
«Ed è stato inaspettato, anche esagerato per certi versi», sorride Candotti. «Mi ha fatto un enorme piacere e porterò nel cuore tutti questi messaggi. Per me si chiude un grande cerchio, restano i tanti legami e l’amore per questi colori».
Un cerchio che si era aperto nel 2003.
«Era luglio, ricordo esattamente il momento in cui ricevetti quella chiamata. Ero in macchina sul ponte del Bassanello. All’altro capo del telefono c’era Gianni Potti, responsabile della comunicazione del Padova che conoscevo di vista perché lavoravo per il Tennis Club. Mi propose un colloquio andò bene ed entrai. Avevo 24 anni e mi sembrava incredibile».
Fu chiamato per aiutare Gildo Fattori, che ricordo serba?
«Una persona sempre disponibile, bravissima a fare gruppo in sede e in grado di sdrammatizzare i momenti duri. Purtroppo lavorai al suo fianco per pochi mesi prima della sua scomparsa. Dovevo inviare i fax con i comunicati alle redazioni dei giornali, solo da questo particolare si capisce quanto tempo sia passato».
Si sarebbe immaginato di restare 18 anni?
«All’inizio no. Più passava il tempo più credevo che sarei rimasto per sempre. Ma poi le priorità della vita cambiano e ho maturato a lungo questa scelta personale».
Con chi ha legato di più? «Con i dipendenti della sede, ragazzi e ragazze che lavorano nell’ombra ma fanno andare avanti la società».
E tra i giocatori?
«Quelli dell’ultima stagione, perché hanno formato un gruppo eccezionale, ma non resteranno negli annali anche se lo avrebbero meritato. Ho legato con tanti, da giovane mi rivedevo in Bovo perché in campo cercavo di assomigliargli».
L’allenatore al quale è più affezionato?
«Sabatini perché ci ha regalato la prima grande gioia e poi è tornato a lavorare in un’altra veste. Quindi dico Dal Canto, sul quale è stata costruita un’immagine distorta ma che a mio modo di vedere resta un grande insegnante di calcio. Con Bisoli, poi, andavamo a pescare di notte e si parlava un po’ di tutto».
Il giocatore più difficile da convincere a presentarsi davanti ai microfoni?
«Milanetto. Me lo disse fin dal primo giorno: rispetto il tuo lavoro ma con i giornalisti non voglio parlare. Riuscimmo a convincerlo solo una volta dopo una sfuriata di Foschi e rispose a monosillabi. Peccato, perché era un ragazzo di spessore».
Momento più bello?
«La mostra del centenario allestita al San Gaetano nel 2009 e la fiaccolata in Prato della Valle un mese prima del lockdown».
Momento più duro?
«Il fallimento del 2014. In un attimo svanirono anni di lavoro. Vidi Giorgio Molon piangere per aver perso i giovani che aveva cresciuto».
Resterà nel calcio?
«No, ma non vedo l’ora di vedere una partita nella nuova curva». —
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