Danielle Rose Collins, la guerriera che non si arrende

Storie di tennis. Non aveva abbastanza soldi: niente circolo, giocava nei campi pubblici. La svolta nel 2017, fino al ko in finale agli Australian Open. Ma ora è nella Top 10
Fabrizio Brancoli
Danielle Collins of the U.S. plays a backhand return to Ash Barty of Australia during the women's singles final at the Australian Open tennis championships in Melbourne, Australia, Saturday, Jan. 29, 2022. (AP Photo/Simon Baker)
Danielle Collins of the U.S. plays a backhand return to Ash Barty of Australia during the women's singles final at the Australian Open tennis championships in Melbourne, Australia, Saturday, Jan. 29, 2022. (AP Photo/Simon Baker)



Ogni volta che scende su un campo di tennis, Danielle Rose Collins ha in mente lo stesso piano. Colpire la palla forte, picchiarla come se fosse un nemico. Se per caso quella palla osasse tornare, il piano prevede di colpirla ancora più forte. In progressione, come in uno schema brutale e ossessivo, anticipando l’impatto con i due fondamentali da fondo campo: dritto e rovescio, sciabolate, bordate, esplosioni in contropiede. Se fosse un pugile, sarebbe un picchiatore, da mano di pietra. Uno che avanza e sfonda, che entra nelle tue difese di forza, senza tanti studi di traiettorie. Uno che mena.

Forte.

Ancora più forte.

Fortissimo.

Danielle non sembra mai felice; non fa l’amore con la sua partita, semmai è in battaglia. E urla. Strilla quando gioca, quando vince il punto, per esaltarsi, quando perde il punto, per fare appello a ogni possibile avversario immateriale _ il destino, la sfortuna, i suoi errori, la stanchezza, l’ingenuità _ e dirgli: che tu sia maledetto.

A volte il piano non funziona, a volte non basta. Danielle ora entrerà nelle top ten: è la prima volta nella sua vita. Fino a un certo livello era presente ma da lì in su sbatteva contro un muro di avversarie più pericolose e soprattutto più esperte di lei. Questo, perlomeno è accaduto fino a pochi anni fa. E ora che molte giocatrici d’élite sono state spazzate via dalle urla della Collins come arbusti davanti a un tornado, c’è l’improvviso risveglio dei media a caccia della storia della ragazza della Florida. Perché Danielle una storia da raccontare ce l’ha. L’ha sempre avuta.

Il mondo del tennis ha preso consapevolezza che avrebbe dovuto fare i conti con questa biondina urlante nel marzo del 2017. È successo a Indian Wells e a Miami, dove la ragazza a 24 anni ha vinto le prime partite Wta della sua vita. Un match l'ha vinto anche contro una sconcertata Venus Williams, che aveva in faccia stampato un "come osi???". Così si è appreso che Danielle Rose Collins in realtà era una bella promessa, anni prima. Ma, semplicemente, non aveva abbastanza soldi. Ha cominciato a giocare a tennis nei campi pubblici di Tampa, senza essere affiliata ad alcun club. Da bambina andava lì e chiedeva a tutti: ehi, vuoi fare qualche scambio con me? Racconta di aver giocato a otto anni dei doppi con degli ottantenni, a 12 con i quarantenni nei tornei comunali.

Quando ha sedici anni, come scrive Mirko Spadaro su sportfair.it, la ragazza di Saint Petersburg diventa una in vista: una delle migliori juniores americane. Il problema è ancora una volta il portafoglio: non è possibile girare il mondo nei tornei giovanili più importanti, meglio iscriversi all’università, meglio prendersi una laurea, meglio pensare a un lavoro. Sceglie la Virginia University, dove conseguirà una laurea in comunicazione (praticamente sto parlando di una mia collega!) ma il tennis non lo lascia: continua ad allenarsi, gioca nella NCAA e diventa campionessa di college.

Allo Us Open del 2014 le regalano una wild card, cioè la fanno giocare direttamente nel tabellone di quelle brave, anche se praticamente non ha classifica mondiale: lei vince addirittura un set contro la Halep e poi esce al primo turno, com’è ovvio. Sarebbe la sconfitta più piacevole della vita, perché c’è un premio di 45mila dollari. Ma Danielle deve rispettare le rigide regole anti-professionistiche dei giocatori di college e quindi deve rinunciare a quei soldi.

Sembra finita: il tennis per lei non può diventare un mestiere. Il sogno americano alla rovescia: c’è il talento ma non l’affermazione. Prova a giocare nei tornei minori internazionali ma è una sofferenza: come racconta Andrea Lombardo su tenniscircus.com, le succede spesso di viaggiare a vuoto. «Mi è capitato diverse volte di andare dall’altra parte del mondo e di tornare a casa, magari, con 180 euro».

È il marzo del 2017 e nel percorso di Danielle Rose Collins accade la prima cosa veramente bella. Che sarebbero centomila dollari, una specie di super borsa di studio tennistica aggiudicata dalla Oracle, gigante delle telecomunicazioni. Prima opzione: spenderseli per girare il mondo, acquistare beni voluttuari, auto, abiti, forse una piccola casa. Seconda opzione: investirli nel tennis, tutti. Danielle sceglie l’opzione due: paga dei professionisti e allestisce un mini staff per un programma di allenamento altamente specializzato. Da lì cambia tutto e un anno dopo, appunto, arrivano le vittorie in Indian Wells e di Miami dove arriva addirittura in semifinale. E poi ecco la semifinale degli Australian Open del 2018, che la consacra. Ma resta alterna.

Qui vanno aggiunti alcuni dettagli non insignificanti ai fini della narrazione.

Danielle è molto sexy.

Danielle è molto cattiva.

Si intende cattiva in campo, ovviamente. È antipatica, aggressiva, sprezzante: così dicono le sue colleghe, dietro agli angoli delle docce. In realtà lei è solo una creatura mostruosamente competitiva. Vuole vincere per ko. Lei non vuole superarti: vuole proprio disintegrarti.

Danielle Collins, la biondina picchiatrice urlante, è una delle mie tre giocatrici preferite (coming out: le altre due sono Petra Kvitova e… Ashleigh Barty, quindi capirete che sto vivendo giorni interessanti come appassionato).

Ora la ragazza, selvaggia e pura, istintiva e profonda come piacerebbe a Rousseau (che non è un allenatore francese), ha raggiunto il sogno di una vita: la finale di uno Slam, dove (era chiaro) ha preso una stesa da Barty che gioca un tennis sublime ed era in missione per conto di un continente.

È un personaggio che mi intriga perché ha una caratteristica precisa, non a caso simile alle altre due mie “elette”: è molto forte e molto fragile al tempo stesso. E, da Omero ai supereroi Marvel, i guerrieri che mostrano umanità e debolezze sono un’antologia emotiva della quale abbiamo bisogno. —

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