«Ero povero e il futsal mi ha cambiato vita»

Ricardinho ha iniziato a 15 anni, tolto dalla strada. Ha vinto l’Europeo con il Portogallo

PADOVA. Assomiglia ad Higuain, e quando glielo fai notare non sembra sorpreso, anzi. Devono averglielo detto in tanti, per cui ci ha fatto l’abitudine. Ma tiene a rimarcare: “Gonzalo è argentino, io portoghese”. Ciò che colpisce di lui, d’istinto, è la modestia. Un campione del calcio a 5 che fa dell’umiltà il suo personalissimo stile di vita, forse perché, come racconta, «sono nato povero e so cosa significhi la fatica del giorno dopo giorno». Ricardo Filipe da Silva Braga, in arte Ricardinho, è sbarcato a Padova per una serata-esibizione alla palestra Gozzano, dove una caviglia malconcia gli ha impedito di scendere in campo e mostrare alcune delle magìe che lo hanno reso celebre, ma non di sottoporsi ad un bagno di folla che è riservato solo ai “grandi” dello sport, tra autografi e selfie con gli spettatori che ieri sera hanno gremito l’impianto alla Guizza per l’All Star Game organizzato dall’Italian Coffee Petrarca.

Ricardinho, avete chiuso un cerchio magico. Il Portogallo è campione europeo di calcio a 11, di beach soccer e ora anche di futsal. Siete davvero i più forti con il pallone tra i piedi?

«Non so se siamo i più forti, però è un fatto che un Paese con pochi milioni di abitanti ha vinto due titoli europei in due anni (2016 e 2018) con le sue Nazionali. Io di questo sono particolarmente felice e mi auguro che il Portogallo si confermi a questi altissimi livelli».

Più importante per i suoi connazionali lei o Cristiano Ronaldo? Fra l’altro vi conoscete molto bene...

«Sì, ma siamo due giocatori e due persone differenti. Cristiano ha una visibilità decisamente superiore alla mia, perché il calcio a 11 mediaticamente è fortissimo, mentre il calcio a 5 ancora non è così. Lui è conosciuto in tutto il mondo, io ho tanto seguito, è vero, ma per me adesso è importante continuare a giocare e, possibilmente, vincere il più possibile».

A suo giudizio, perché il calcio lusitano è il più forte a livello di Nazionale, e stenta, invece, a farsi largo in Europa con i club? Benfica, Porto, Sporting Lisbona non vanno mai tanto avanti nelle Coppe.

«È un problema essenzialmente economico. I nostri club fanno crescere i giocatori dall’inizio, però non hanno i soldi per tenerseli quando emergono. Così arrivano le grosse società straniere e se li portano via: parlo del Manchester City, del Monaco, del Real Madrid ecc. Pensi che della Nazionale a 11 che si è laureata campione continentale solo in 4 sono rimasti in Portogallo, gli altri sono emigrati tutti. Non si può competere con squadre finanziariamente più forti».

Si dice che il vostro calcio a 5 assomigli molto a quello brasiliano. È vero?

«No, sono diversi l’uno dall’altro. Il futsal brasiliano è più tecnico, il nostro più rapido. C’è uno stile europeo contrapposto ad uno stile tutto fantasia dei carioca».

Andare in giro ed essere additato come un Maradona del calcio a 5 che responsabilità comporta? Pesa essere il più forte giocatore al mondo?

«Confesso che la mia vita è completamente cambiata, in campo e soprattutto fuori. Voglio e devo essere di esempio soprattutto ai bambini, che dovrebbero avvicinarsi da piccoli a questa disciplina. Io ho cominciato a 15 anni, prima giocavo come centrocampista - avevo il numero 10 sulle spalle - nel calcio a 11».

Ma quante ore vi dedica quotidianamente?

«Quando avevo 15 anni, e sino ai 22, mi allenavo anche 10 ore al giorno. Seguivo poi un’alimentazione controllata. Dopo i 22, sono sceso a 6-7 ore giornaliere, tra palestra, esercizi fisici, corsa e tecnica con la palla».

Girano in rete dei video su di lei che mostrano cose incredibili, anche all’ultimo Europeo. Come fa ad inventarsi giocate del genere?

«È tutto spontaneo, non c’è niente di studiato. Dò spazio al mio estro e in partita, lo ammetto, mi esalto».

Nella sua carriera ha qualche persona o episodio a cui si sente particolarmente legato?

«Due persone, che hanno inciso sulla mia formazione calcistica. Il presidente del Miramar, la mia prima squadra d’elite, José Manuel Leite, un secondo padre per me, che purtroppo morì nel 2011 in un incidente stradale. E poi una donna, Carolina Silva, allenatrice della Gramidense, che mi tolse dalla strada. È stata la chiave del mio successo, mi ha sempre parlato delle mie qualità e della mia umiltà, lanciandomi nel futsal».

Quando segna , alza le bracca al cielo, chiude gli occhi e ringrazia. E davvero così forte la sua fede in Dio?

«Il mio “grazie”, con quel gesto, va a Dio ma anche a Leite, il mio ex presidente. Li ringrazio per tutto ciò che ho adesso, e se penso a quando ero povero mi sembra di sognare. Ma la mia fede è anche un esempio per i figli, che devono capire che nulla si raggiunge senza sacrificio e senza lottare quotidianamente».

È vero che ha un fratello di cui si dice un gran bene e che potrebbe essere più forte di lei?

«Sì. Si chiama Ruben, ha 20 anni, e gioca nel Boavista di calcio a 5. Credo che lo attenda un grande futuro davanti».

Famiglia povera e con tanti problemi. Giusto?

«Quelli creati dall’altro mio fratello, Hugo, oggi 36enne, che si è fatto nove anni di carcere perché spacciava droga. Ho un tatuaggio sul braccio sinistro che mi ricorda sempre cos’era diventato. Oggi per fortuna ne è uscito, ma è stata molto dura per me e i miei».

In conclusione, quanto giocherà ancora?

«Ho un contratto con il Real Madrid che scadrà nel 2020, quando avrò 35 anni. E sino ad allora non ho proprio alcuna intenzione di mollare».

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