Pippo Maniero, dieci anni fa l’ultimo gol «Ma il più bello resta il primo all’Appiani»

24.02.2002.- CALCIO VENEZIA / MILAN. AZIONE DEL GOL DI MANIERO. - INTERPRESS/CRUCCU
24.02.2002.- CALCIO VENEZIA / MILAN. AZIONE DEL GOL DI MANIERO. - INTERPRESS/CRUCCU

Stefano Edel / LEGNARO

Dieci anni fa, era la stagione 2009/10, Filippo – Pippo per tutti – Maniero appendeva le scarpe al fatidico chiodo. Era un dilettante, e decise di chiudere la carriera nel Casalserugo, in Prima Categoria. Da lì in poi iniziò la sua nuova vita, quella di allenatore, sino a sposare la causa dell'Aurora Legnaro, la società del suo paese. Ora l'emergenza da Coronavirus ha bloccato tutto.

Pippo, in attesa di capire quale sarà il futuro del nostro calcio, facciamo un salto a ritroso nel tempo. Padova, Verona e Venezia sono state le squadre venete in cui ha giocato. E lasciato il segno...

«In carriera ho vestito 15 maglie diverse, comprese Piovese, Legnarese e Casalserugo, una volta lasciato il professionismo. Le statistiche dicono che ho segnato 117 gol, di cui 78 in Serie A. E la maggior parte li ho realizzati proprio con le tre squadre della mia regione».

Se le diciamo che quelli a cui è più legato sono i due rifilati con la maglia biancoscudata al Napoli, nel 3-3 del San Paolo, dopo il ritorno nella massima serie, e quello strepitoso di tacco realizzato con il Venezia, nella famosa partita del Penzo contro l'Empoli, sempre in A, vinta 3-2 dagli arancioneroverdi, sbagliamo di tanto?

«No, affatto. Ci aggiungerei anche la rete dell'1-1 al Pescara con il Padova, il giorno in cui debuttai in Serie B all'Appiani. Avevo 17 anni, era la prima convocazione dopo aver fatto tutta la trafila nel settore giovanile: entrai a 20 minuti dalla fine, perdevamo 1-0 e fortunatamente battezzai l'esordio con un sigillo pesantissimo».

Due esperienze bellissime, a Padova, dov'è stato profeta in patria, e a Venezia.

«Padova mi ha dato la possibilità di far parte di questo mondo: ho esordito nel grande calcio e ho centrato la storica promozione in A nel 1994, dopo 32 anni di attesa. Senza contare la salvezza della stagione successiva nello spareggio di Firenze. La gratitudine e la stima che ho per questa società vale più di tutto quanto ho poi ricevuto dagli altri club. Venezia ha rappresentato l'opportunità per la mia consacrazione da calciatore, 4 anni in cui ho messo dentro una sessantina di palloni. Sia a livello fisico, che mentale e di esperienza ero al top. Arrivai che avevo 26 anni e sicuramente vissi le stagioni più belle dal punto di vista della concretizzazione. Padova, comunque, resta un gradino sopra».

Verona?

«Anche quello è stato un passaggio fondamentale, avevo fatto Padova e Sampdoria e dagli scaligeri passai poi al Parma di Ancelotti, dove trovai compagni come Buffon, Cannavaro, Thuram, Crespo e Chiesa. Giocai in Champions League e ringrazio Verona perché rappresentò di fatto il mio trampolino di lancio verso una grande squadra: 12 gol in gialloblù non furono pochi».

Dal Parma al Milan per una cifra notevole, 10 miliardi di lire di allora. Prima gara, Capello la manda in campo contro il Piacenza nella ripresa e al 90' lei fa l'1-1. Ecco, proprio riallacciandoci all'avventura in rossonero, non le resta il rammarico di aver avuto forse meno di quello che avrebbe meritato a livello di big?

«Rimpianti non ce ne sono, ho sempre cercato di fare quello che il mio fisico e le mie capacità mi consentivano. Ciò che forse mi ha un po' limitato è stata la serie di infortuni di cui ho sofferto: rotto il crociato, operato due volte di menisco allo stesso ginocchio, il destro».

Torniamo per un momento allo splendido gesto tecnico legato a quella prodezza con il Venezia.

«Eravamo 0 a 0 nella prima partita quando sul Penzo calò la nebbia e l'incontro fu sospeso. Recuperammo il mercoledì dopo e, fatalità, c'era Recoba, che la domenica prima non era in campo. Mi son sempre detto che ho avuto un c... così, perché se avessi provato altre 100 volte a colpirlo, avrei, sì, preso il pallone ancora di tacco, ma non al punto da metterlo ancora all'incrocio dei pali. Fu un movimento istintivo, avevo chiesto però al Chino di indirizzare la palla su punizione verso il primo palo e lui così aveva fatto».

Suo malgrado, è stato protagonista di un chiacchieratissimo Venezia-Bari, per la rete di Tuta che scatenò furibonde reazioni da parte dei pugliesi. Venne tirato in ballo perché aveva detto al brasiliano di stare tranquillo e non andare allo sbaraglio.

«Gli parlai in dialetto e sbagliai. Dovevo dirglielo in... brasiliano, ma non lo sapevo. Ma vi pare che potessi suggerire ad un mio compagno di non segnare? Fu tutto frainteso».

Perché non andò bene l'avventura con i Rangers Glasgow?

«Stetti due mesi in Scozia, si giocava praticamente ogni tre giorni e non ero mai convocato. Non mi ricordo neppure il nome dell'allenatore, so solo che alla prima sosta per gli impegni delle Nazionali feci la valigia e tornai a casa deluso. Si propose il Cittadella con il grande presidente Angelo Gabrielli, lui e Marchetti mi volevano, ma non se ne fece niente. E così chiusi la carriera da professionista”.

E adesso mister in panchina. Che cosa le piace di più?

«La soddisfazione maggiore non è per i risultati raggiunti, ma per il rapporto che si è instaurato con i ragazzi, compresi quelli che non giocano titolari. Qualcosa di particolare a livello umano, che mi gratifica più di ogni altra cosa».

Cos'ha riscoperto in questi due mesi e mezzi di quarantena?

«Sono stato tanto con i miei figli (Andrea, 22 anni, e Riccardo, 10) e mia moglie Elisa. Di sicuro, perdonatemi la battuta, ho speso meno soldi, fra negozi, bar e ristoranti chiusi...».

Il futuro del calcio?

«Prima si pensa alla salute, poi al pallone. Perché bisogna ripartire per forza? E poi a porte chiuse che roba è? No, io aspetterei ancora, il virus c'è sempre». —

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