«Sono bello, tatuato e tutte le donne sono pazze di me»

Alla scoperta del cubano Hiosvany Salgado, centrale della Tonazzo Padova, nuovo beniamino del PalaFabris
Di Diego Zilio
BARON INTERVISTA SALGADO TONAZZO VOLLEY PADOVA
BARON INTERVISTA SALGADO TONAZZO VOLLEY PADOVA

PADOVA. Il corridoio del residence Biri sembra più stretto del normale quando ci passa lui, facendo strada verso il suo appartamento. Ed è normale che sia così, se ti trovi davanti un gigante di 2 metri per 107 chili di muscoli che sembrano scolpiti. Lui è il trentaduenne Hiosvany Salgado e i tifosi di volley padovani – ma soprattutto le tifose – hanno avuto modo di ammirarlo in questi primi due mesi trascorsi alla Tonazzo.

Le donne. Hiosvany piace molto e lo sa. «Le donne sono la cosa più bella che ha creato il Signore», dice il centrale bianconero, «e sono contento delle loro attenzioni. Però….». Però? «Però ho una moglie, Deborah, e una figlia di dieci anni, Alicia. Se Deborah è gelosa? Diciamo che è abituata agli sguardi delle altre, ma mi ricorda sempre di rivestirmi subito quando mi cambio la maglia in campo. A me piace fare il personaggio e mostrare i muscoli, ma soprattutto per i bambini che vanno matti per questi spettacoli».

Moglie e figlia vivono a Rimini. Le vede nei fine settimana, quando lo raggiungono alle partite.

I tatuaggi. «A Cuba ho fatto anche canottaggio, ma la pallavolo mi offriva più prospettive. Fossi nato negli Usa probabilmente avrei giocato a basket, ma sono cresciuto negli anni di Despaigne e Marshall, era inevitabile che finissi a schiacciare». A impreziosire il corpo, sei tatuaggi: dal numero 13, «lucky number» sul braccio sinistro, al tribale su quello destro. Quello a cui più è affezionato è una scritta in spagnolo sotto al costato, che recita: «Rendo grazie a qualunque dio ci sia per l’indomabile anima mia. Sono io padrone del mio destino, il capitano della mia anima». «È una frase di Nelson Mandela e mi ha consigliato un amico di scrivermela perché mi rappresenta. È un incitamento a reagire sempre, a non avere paura di niente». Padova. «Qui è un continuo viavai di sirene» confessa guardando fuori dal terrazzo sulla Stanga, «ma mi piace camminare per Prato della Valle, dove ho portato anche i miei nonni materni, Lucia e Carlo, che da agosto sono qui con me e torneranno a casa la prossima settimana. Per ora ho vissuto poco la città che mi hanno cresciuto a Cuba, perché i miei si sono separati e Mirta, mia madre, mi ha avuto quando aveva vent’anni e ancora studiava. La prossima sarà lei. Per adesso cucinano i nonni e mangiamo sempre riso».

Cuba. Dell’isla gli mancano soprattutto gli amici. «Di Cuba tante cose non mi piacciono, a partire dal regime. Fino a 17 anni non avevo nemmeno le scarpe per giocare e in Nazionale ero chiuso da una generazione di fenomeni come Hernandez e Pimienta. Così, quando ho conosciuto Deborah l’ho seguita in Italia, a ventun anni. All’inizio la Federazione non poteva tesserarmi, perché proprio in quel periodo la Nazionale cubana aveva chiesto asilo politico in Belgio e c’erano problemi con i visti. Per questo ho giocato a San Marino, e dopo un paio di stagioni nel campionato italiano».

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