«Sono bello, tatuato e tutte le donne sono pazze di me»

PADOVA. Il corridoio del residence Biri sembra più stretto del normale quando ci passa lui, facendo strada verso il suo appartamento. Ed è normale che sia così, se ti trovi davanti un gigante di 2 metri per 107 chili di muscoli che sembrano scolpiti. Lui è il trentaduenne Hiosvany Salgado e i tifosi di volley padovani – ma soprattutto le tifose – hanno avuto modo di ammirarlo in questi primi due mesi trascorsi alla Tonazzo.
Le donne. Hiosvany piace molto e lo sa. «Le donne sono la cosa più bella che ha creato il Signore», dice il centrale bianconero, «e sono contento delle loro attenzioni. Però….». Però? «Però ho una moglie, Deborah, e una figlia di dieci anni, Alicia. Se Deborah è gelosa? Diciamo che è abituata agli sguardi delle altre, ma mi ricorda sempre di rivestirmi subito quando mi cambio la maglia in campo. A me piace fare il personaggio e mostrare i muscoli, ma soprattutto per i bambini che vanno matti per questi spettacoli».
Moglie e figlia vivono a Rimini. Le vede nei fine settimana, quando lo raggiungono alle partite.
I tatuaggi. «A Cuba ho fatto anche canottaggio, ma la pallavolo mi offriva più prospettive. Fossi nato negli Usa probabilmente avrei giocato a basket, ma sono cresciuto negli anni di Despaigne e Marshall, era inevitabile che finissi a schiacciare». A impreziosire il corpo, sei tatuaggi: dal numero 13, «lucky number» sul braccio sinistro, al tribale su quello destro. Quello a cui più è affezionato è una scritta in spagnolo sotto al costato, che recita: «Rendo grazie a qualunque dio ci sia per l’indomabile anima mia. Sono io padrone del mio destino, il capitano della mia anima». «È una frase di Nelson Mandela e mi ha consigliato un amico di scrivermela perché mi rappresenta. È un incitamento a reagire sempre, a non avere paura di niente». Padova. «Qui è un continuo viavai di sirene» confessa guardando fuori dal terrazzo sulla Stanga, «ma mi piace camminare per Prato della Valle, dove ho portato anche i miei nonni materni, Lucia e Carlo, che da agosto sono qui con me e torneranno a casa la prossima settimana. Per ora ho vissuto poco la città che mi hanno cresciuto a Cuba, perché i miei si sono separati e Mirta, mia madre, mi ha avuto quando aveva vent’anni e ancora studiava. La prossima sarà lei. Per adesso cucinano i nonni e mangiamo sempre riso».
Cuba. Dell’isla gli mancano soprattutto gli amici. «Di Cuba tante cose non mi piacciono, a partire dal regime. Fino a 17 anni non avevo nemmeno le scarpe per giocare e in Nazionale ero chiuso da una generazione di fenomeni come Hernandez e Pimienta. Così, quando ho conosciuto Deborah l’ho seguita in Italia, a ventun anni. All’inizio la Federazione non poteva tesserarmi, perché proprio in quel periodo la Nazionale cubana aveva chiesto asilo politico in Belgio e c’erano problemi con i visti. Per questo ho giocato a San Marino, e dopo un paio di stagioni nel campionato italiano».
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