Un lungo salto dipinto di giallo «Io? Mai barato»

Giovanni Evangelisti e il pasticcio di Roma ’87 «La Fidal? Aspetto ancora una telefonata»
Di Cristina Chinello

PADOVA. Otto metri e trentotto centimetri: la misura del giallo. L’associazione è inevitabile. È il destino di chi, anche suo malgrado, diventa protagonista di un fatto eclatante. A sentire il nome di Giovanni Evangelisti, il collegamento storico fila dritto al “giallo di Roma”, la finale mondiale nella quale l’atleta, allora ventiseienne, conquistò la medaglia di bronzo nel salto in lungo, salvo poi restituirla dopo poco perché emerse che le rilevazioni effettuate dai giudici erano sbagliate: il posizionamento del prisma ottico e del picchetto avvennero in modo non corretto, assegnando il terzo posto ad Evangelisti e il quarto all’atleta americano Larry Myriks che saltò 8,33 metri (la gara fu vinta da Carl Lewis con 8,67 m, secondo il sovietico Robert Emmijan con 8,53m). L’ex saltatore italiano oggi lavora nel settore immobiliare e fra i suoi hobby ci sono l’arte e, naturalmente, lo sport, anche se solo da spettatore. A vederlo oggi, a più di vent’anni dalle imprese con le quali emozionò l’Italia, colpiscono soprattutto le sue gambe lunghissime e sottili, una sorta di “marchio di fabbrica” del saltatore. «Mi sono laureato tardi in architettura perché prima mi ero dedicato solo all’atletica. A 35 anni è difficile entrare nel mondo del lavoro come architetto. Nel tempo libero mi piace visitare mostre e andare a vedere le gare dei miei figli: mi piacciono più dei grandi eventi perché le sento più genuine, più vere».

Come sta l’atletica oggi secondo lei?

«È diventato uno sport di Stato: se non entri in un gruppo sportivo militare, non ci sono società che siano in grado di investire adeguatamente nella crescita degli atleti. Con lo stipendio da statale, invece, si ha almeno la tranquillità di potersi dedicare esclusivamente all’agonismo. È una scelta obbligata».

Pensa che sia una cosa positiva o negativa?

«In realtà c’è un importante aspetto positivo: se c’è un atleta forte, almeno ha la possibilità di andare avanti e costruire la sua carriera agonistica senza doversi preoccupare di cosa farà dopo. Se ci fossero anche altre società di livello, un giovane potrebbe avere le spalle coperte finché capisce se e quali possibilità ha. Purtroppo mi sembra che oggi le società sportive militari siano prese come dei parcheggi: ci sono atleti poco forti che stanno lì a vivacchiare. Ci dovrebbe essere una selezione più severa».

Anche lei è stato tesserato per le Fiamme Oro…

«Sì, per un anno e mezzo, poi ho scelto una società di Milano: quando gareggiavo, c’erano privati di livello che permettevano il salto di qualità. E poi volevo studiare e fare anche altro nella vita perché penso che se una persona ha anche delle qualità intellettuali, le dovrebbe seguire e sviluppare: meglio un buon medico che un discreto sportivo».

Lei ha vissuto il momento magico dell’atletica italiana: quale futuro vede per questo sport?

«È difficile che torni ai fasti di un tempo. L’Italia ora è a livello Europeo, non riesce ad andare oltre. Basta guardare i Mondiali o le Olimpiadi: prendiamo una o due medaglie, e ce ne stupiamo. Ecco, quando ne vinceremo sei o sette, allora significherà che qualcosa è stato fatto».

A proposito di mondiali: non possiamo non parlare del “suo” Mondiale di Roma…

«In cui però c’entravo niente. L’ho detto anche a Gianni Minà che un giorno mi invitò in trasmissione: se ha qualcosa da chiedere in proposito, dovrebbe interpellare i giudici che hanno sbagliato le rilevazioni, non me».

Almeno ci dice che fine ha fatto la medaglia?

«L’ho restituita simbolicamente a Myricks, l’americano che si era classificato al quarto posto. La medaglia, intesa come l’oggetto con cui mi hanno premiato, ce l’ho a casa dai miei genitori».

I giornalisti scrissero che le sensazioni sugli spalti erano di un salto non così lungo. Le ricorda quali emozioni ha provato quando vide sul tabellone 8,38 metri?

«Ero contento ma anche stupito perché avevo capito che c’era qualcosa che non andava. Questo poi è stato il motivo per cui è caduta quella dirigenza di Federazione, anche se poi le due successive non hanno fatto di meglio».

In che senso?

«Mi lamentavo del doping, che in quegli anni era coperto. I ricordi più belli della mia carriera agonistica li lego alla fase giovanile perché salendo di categoria vedevo che si diffondeva il doping: ho gareggiato con chi barava, tante cose sono venute fuori dopo molto tempo. Eppure, casualmente, venivo sempre estratto io per fare i controlli antidoping. Le mie medaglie sono superpulite. Forse, ma questa è un’idea mia, qualcuno con quel bronzo in realtà voleva darmi un riconoscimento per il mio sport pulito».

Qual è la sua medaglia più bella? quella che ricorda con particolare affetto?

«Sono due. Due medaglie giovanili: 7,84 metri Junior, record italiano, la gara che mi fece fare il salto di qualità. E poi il meeting di Milano in cui, primo italiano, superai gli otto metri. E naturalmente il bronzo olimpico».

Lei ha partecipato a tre olimpiadi (Los Angeles, Seoul, Barcellona): qual è stata la più bella?

«Oltre a Los Angeles, in cui ho vinto la medaglia di bronzo, anche Seoul: nessuno si ricorda di me in quell’occasione perché mi classificai al quarto posto, ma io conservo dei bei ricordi, mi sono proprio divertito».

Quando decise di smettere con lo sport agonistico?

«Avevo 33 anni e non avevo più voglia di fare l’atleta. Mi sarebbe piaciuto fare l’architetto, la professione per la quale studiavo, ma a quell’età è difficile inserirsi. Avevo anche tentato di entrare al Coni: ero andato a parlare con Pescante e Barra, loro mi avevano rassicurato che mi avrebbero ricontattato, ma sto ancora aspettando quella telefonata».

V uol dire che ha chiuso con lo sport?

«Per ora sì, ogni tanto vado a sciare ma con poca costanza. Per qualche tempo ho allenato una ragazza qui a Padova. Aveva buone potenzialità, ma un cervello super, si è iscritta alla Normale di Pisa. Poi, quando ho smesso di allenarla e non sono più andato in campo, nessuno si è chiesto come mai non andassi più, nessuno mi ha più cercato. Eppure lo facevo pressoché gratis, ma il fatto è che la Federazione sembra disinteressarsi. È un processo che va avanti da anni: la Federazione non ha considerato che era il tecnico in campo a far girare tutto il movimento. E molti, di fronte a scarse soddisfazioni anche di tipo economico, si sono dedicati a fare i preparatori atletici del calcio o delle palestre, desertificando i campi d’atletica. Chi è rimasto, spesso si è dedicato più alla politica che a far crescere il movimento di base».

Ma qualche talento in giro ci sarà?

«Andrew Howe aveva qualità eccelse, per un po’ ha fatto bene e ottenuti grandi risultati, ma poi il suo rendimento è scemato perché si è gestito male. Fra gli emergenti mi piace molto Daniele Greco, Fiamme Oro, quarto alle Olimpiadi: è l’atleta che nei prossimi tre-quattro anni potrebbe vincere qualcosa di importante». E del palaindoor che sarà a breve completato a padova cosa pensa?

«È un progetto positivo, farà bene al movimento. Poi però bisogna anche riempirlo questo stadio, e qui torniamo al discorso di prima: se non ci sono i tecnici giusti, le piste non si riempiono da sole».

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