«A casa per Natale grazie a una colletta dei colleghi precari»

Stefania Aceto, cosentina, attende da 4 mesi gli stipendi per le sue supplenze. «Lo Stato mi umilia ogni giorno»
Di Cristiano Cadoni
CADONI - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - CGIL, UFFICIO SCUOLA, PRECARI. STEFANIA ACETO, INSEGNANTE SCUOLA PRIMARIA
CADONI - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - CGIL, UFFICIO SCUOLA, PRECARI. STEFANIA ACETO, INSEGNANTE SCUOLA PRIMARIA

Da due mesi i giorni di Stefania Aceto sono dolorosamente uguali, uno all’altro. Sveglia alle 6, pullman, un carico di rabbia e frustrazione da lasciare fuori dalla porta d’ingresso, almeno quattro ore di lavoro con bambini disabili e problematici, altro pullman e ritorno a casa. Dove se va bene c’è solo qualche sollecito di pagamento per le bollette scadute. E se invece va male c’è il padrone di casa che reclama l’affitto. Un uomo comprensivo, certo, ma che comincia a dubitare della solita spiegazione. «Non mi pagano da quattro mesi», ripete Stefania. «I soldi arriveranno». Certo, arriveranno. Ma in quattro mesi Stefania - 35 anni, calabrese, da otto anni in città - ha portato a casa 477 euro. Trecento per un anticipo di stipendio a settembre, 177 di tredicesima a inizio dicembre. Per molto meno, di solito, si denuncia il datore di lavoro. Solo che il datore di lavoro di Stefania è lo Stato. Stefania è un insegnante di sostegno precaria, contratto garantito solo fino al 21 febbraio nel IV istituto Comprensivo.

Di insegnanti come lei, tra Padova e provincia ce ne sono cinquecento. E Stefania non è la più sfortunata, perché ci sono anche quelli che una supplenza non ce l’hanno e che hanno incassato zero. Anzi 0,97 centesimi di tredicesima. E basta. Con tanti auguri di buone feste e il timbro della buona scuola del governo Renzi.

Da ieri Stefania Aceto è a Cosenza, tra i suoi cari. Tornare, per la verità, era un lusso che non si sarebbe potuta permettere. Ma i precari hanno piccoli conti in banca e cuori grandi. Hanno fatto una colletta, ognuno con quello che poteva, e le hanno regalato il biglietto del treno e una settimana di calore familiare. Stefania ne parla e si commuove. «È come una famiglia, dico davvero. Condividiamo tutto, ci sosteniamo a vicenda. E non abbiamo niente. Prima c’è stata l’estate, tre mesi senza lavoro e solo la disoccupazione. Poi i più fortunati hanno ricominciato i giri di supplenze, ma i soldi non sono mai arrivati». Un cortocircuito burocratico, inefficienze assortite fra i ministero delle Finanze e quello dell’Istruzione, segreterie oberate di lavoro con il carico della Buona scuola: per un motivo o per un altro i pagamenti si sono fermati (ne parliamo in un pezzo a parte). Ci sono 30 mila insegnanti in tutta Italia nelle stesse condizioni. «È difficile da capire e anche da spiegare», racconta Stefania. «Da nessun datore di lavoro puoi accettare quattro mesi di ritardo nel pagamento. Dallo Stato poi...». Ma mollare no, neanche a parlarne. «Io voglio fare quello che faccio, per me non è lavoro anche se lo è. Io sto bene con i bambini, credo di avere questa missione. Ma per vivere devo guadagnare, non posso farne a meno». È una condizione umiliante e difficile da gestire. «Ogni mattina», prosegue Stefania, «devo sforzarmi di non pensarci. Entro a scuola e so che devo fare del mio meglio, avere serenità e forza, dedicarmi totalmente ai bambini, dare loro il meglio. Siamo insegnanti, abbiamo una generazione in mano, qualcuno non se ne rende conto. Però per me - e per quelli che sono nella mia stessa condizione - è difficile non pensare che dovrò tornare a casa, che dovrò chiedere dieci euro in prestito per mangiare». Lo Stato ha un debito di quasi 4 mila euro con Stefania. Glieli pagherà tutti insieme, forse a fine mese, forse a gennaio, e - altra beffa - glieli tasserà come un unico stipendio. Tassa da ricchi, al 34 per cento. Uno scherzetto che l’anno scorso a molti precari è costato l’equivalente di un mese di paga. «Mi fa rabbia che solo i nostri soldi si siano bloccati», prosegue Stefania. «I 500 euro del bonus per i colleghi di ruolo sono arrivati puntualmente. Così in assemblea devo perfino assistere ai loro dibattiti su come spendere quei soldi. Io mi vergogno, a parlare della mia situazione, è una condizione umiliante. Ma ho una dignità, sono un insegnante, non possono trattarmi così. E mi rendo anche conto di essere fortunata: con 177 euro di tredicesima ho fatto la spesa, ho pagato una bolletta. E ora torno a casa, grazie a questo regalo inatteso». È un respiro, dopo settimane di apnea. Ossigeno. Una tregua. «Però ho già paura di tornare», conclude, «perché so cosa mi attende se quei soldi nel frattempo non mi arrivano. Sono preoccupata almeno quanto sono arrabbiata. Credevo in questo governo, ma la Buona scuola non esiste. Credo ancora nelle istituzioni, ma uno Stato che si comporta così legittima anche i privati a trattare male i loro dipendenti. Credo ostinatamente in quello che faccio e continuerò a farlo. Ma sono umana e mi rendo conto di non riuscire a farlo come vorrei».

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