“Ana Arabia”, in concorso la bomba di pace di Amos Gitai

Cineasta israeliano scomodo ai suoi più che agli altri, Amos Gitai da sempre indaga sulla convivenza tra le due etnie palestinesi non risparmiandosi né verso gli ebrei né verso gli arabi. Il suo...

Cineasta israeliano scomodo ai suoi più che agli altri, Amos Gitai da sempre indaga sulla convivenza tra le due etnie palestinesi non risparmiandosi né verso gli ebrei né verso gli arabi. Il suo obiettivo dichiarato, ribadito in “Ana Arabia”, in concorso a Venezia 70, è di far scoppiare «una bomba di pace contro le violenze che scorrono tra ebrei e arabi». Per far questo sceglie un meta e una confezione ambiziosa, girare tutto il film in un unico piano-sequenza, senza stacchi. aUn modo formale e sostanziale allo stesso tempo» ha spiegato ieri Gitai nell’incontro con i giornalisti «per far capire come non si debbano spezzare i destini di ebrei e arabi, che sono intrecciati e si deve per forza trovare un modo pacifico di coesistere, non solo in continuo conflitto, ma vivendo ognuno la propria vita e nutrendosi e stimolandosi gli uni con gli altri». Tutta la storia del film è una metafora della fragile utopia della convivenza tra i due popoli, ma anche la conferma che le radici di entrambi sono comuni e condivise.

Partendo da una piccola comunità di ebrei e arabi, che vivono in un quartiere povero al confine fra Jaffa e Bat Yam, con un agrumeto di limoni quasi sepolto dai palazzoni di periferia, una giovane e bella giornalista, Yael (Yuval Scharf), va a visitare queste case cadenti, ma dignitose, scoprendo una serie di personaggi che forniscono la dimostrazione di una convivenza possibile e di una umanità straordinaria.

I volti e le parole di Youssef e Miriam, di Sarah e Walid, dei vicini e degli amici raccontano le loro storie di dolore e speranza, gli amori e la voglia di vivere: tutta ruota attorno alla figura lungamente evocata della donna del titolo, un’ebrea polacca scampata ad Auschwitz e poi rifugiata in Israele, che decide, per amore, di convertirsi all’Islam e di sposare Youssef.

Ne emerge un panorama che forse ci si poteva aspettare spigoloso e violento e che invece emerge, forse con un po’ di prevedibilità, ma con un’umanità forte di imperativi categorici come il dovere e il rispetto dell’ospitalità a tutti costi. Bello e coerente nelle storie e nelle testimonianze, “Ana Arabia” viene meno proprio in quello che doveva essere un privilegio estetico, dato che il piano sequenza appare un po’ troppo fissato sui primi piani dei protagonisti fino all’ultima inquadratura, verso un cielo comune. (mi.go.) Voto: ** ½

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