Arzergrande ovvero Portus Aedro, l’incrocio di fiumi e strade romane

Dai templi per gli dei ai casoni promiscui per uomini e bestie
SBRISSA - FOTOPIRAN - ARZERGRANDE - CASONE AZZURRO DI VALLONGA
SBRISSA - FOTOPIRAN - ARZERGRANDE - CASONE AZZURRO DI VALLONGA

ARZERGRANDE. È grande come la fatica, l’argine che corre lungo il Brenta; così come quello che costeggia il Bacchiglione.

due fiumi che scorrono verso l’Adriatico convergono a imbuto proprio qui, in questa piccola Mesopotamia dove sta Arzergrande, ma dove la terra è molto meno generosa di quella biblica in cui la tradizione colloca l’Eden.

Domandatelo alle generazioni di braccianti che per secoli si sono spaccati la schiena per strappare qualcosa ad una natura avara, oltretutto dovendo pagare dazio ai grandi proprietari terrieri.

Adesso sono sparite anche le tracce; ma non è passato molto tempo da quando il territorio era disseminato dai caratteristici casoni, al cui interno lo spazio andava diviso con pochi quanto preziosi animali, che rappresentavano la forma più economica di riscaldamento da vivi, e una risorsa strategica da morti; e dove i cassettoni del comò servivano come letto per i ragazzini.

Oggi qualcuno di loro, opportunamente restaurato, fa da spunto folkloristico per visitatori deliziati dall’immagine bucolica, e che neanche lontanamente si immaginano quanta sofferenza e miseria abbiano abitato in quegli spazi.

Il porto fluviale. Alle spalle di tutto questo c’è una storia lunghissima, decisamente in controtendenza rispetto alla nota dominante dei secoli successivi: risale al periodo aureo di Roma, e dura per i primi due secoli dopo Cristo.

L’odierna zona del Piovese, la Saccisica, in cui Arzergrande è compresa, è attraversata all’epoca da tre direttrici stradali di primo piano, tra cui quella che per quei tempi si può considerare una sorta di superstrada: la via Popilia, che collega Adria con Altino.

Si tratta di uno snodo strategico tra l’asse nord-sud e quello est-ovest. La situazione delle infrastrutture è potenziata oltretutto dalla presenza di due vie d’acqua importanti come il Medoacus (l’odierno Brenta) e il Retrone (l’attuale Bacchiglione); il primo in particolare, uscito da Padova, si suddivide in due rami, uno dei quali passa per Vallonga (Vallis Longa, frazione di Arzergrande) prima di sfociare in laguna.

Approfittando della posizione e delle risorse messe a disposizione dalla natura, qui i romani realizzano uno scalo fluviale (il Portus Aedro) agganciato all’economia della pimpante Patavium, cui la collega anche una strada: una sorta di Interporto, diremmo oggi, dove le vie di terra si congiungono con quelle d’acqua.

Così per un paio di secoli Vallonga diventa un centro commerciale di primo piano per il traffico merci, con il relativo indotto, per poi decadere e venire pressoché cancellato dalle ondate successive delle invasioni barbariche.

Con ricadute ambientali pesanti: non più regolati, i fiumi sono soggetti a esondazioni e altre calamità naturali, il cui picco arriva nel 589 quando il ramo del Brenta che passa per Vallonga si sposta più a sud.

La rinascita ad Arzere. La vita civile riprende solo attorno all’anno Mille, spostandosi leggermente più a ovest: un documento fa cenno all’esistenza di un abitato chiamato Arzere (il nucleo originario del paese, che poi diverrà Arzergrande), con evidente riferimento alla sua collocazione a ridosso del vecchio argine.

La comunità si riorganizza attorno alla chiesa di Santa Maria, di cui si parla in un atto del 1179, e della quale rimane ancor oggi l’abside utilizzata come cappella laterale dell’odierno tempio; mentre quel che resta dell’ex affollato porto di Vallonga risorge attorno alla chiesa di San Pietro, demolita e quasi interamente ricostruita nel Seicento.

Ma è una vita piena di stenti, perché i secoli bui delle devastazioni e dell’incuria hanno ridotto l’intera zona a un gigantesco acquitrino: la scarsa popolazione vive di caccia, pesca e di un’agricoltura rudimentale.

I danni del Taglio Nuovissimo. E perfino la Serenissima, solitamente esempio ammirevole nella gestione del territorio, da queste parti finisce per peggiorare la situazione idrica, con la realizzazione del canale Taglio Nuovissimo che altera ancor più gli equilibri naturali dell’area.

Così gli abitanti, per sopravvivere, sono costretti ad adattarsi a quel che passa loro il convento, nella fattispecie la palude, ambiente decisamente ostico: le erbe palustri sono la risorsa pressoché esclusiva a portata di mano, e la gente impara a lavorarle per realizzare stuoie e legacci, per impagliare le sedie, per produrre le caratteristiche “arelle”, i graticci ora tanto usati per le coperture di terrazze, gazebo e altre amene strutture.

La gente di oggi non lo sa, ma quel materiale così utile e così largamente impiegato viene da qui (il prodotto ha rappresentato a lungo una voce prioritaria nell’export di Arzergrande), da queste piante che occorre strappare alla terra e all’acqua rimanendo chini per ore nell’umidità perenne tra zolle e laguna, in mezzo alle barene.

“El pan de sorgo”. Né l’alternanza tra francesi e austriaci, né il passaggio del Veneto con l’Italia riescono a cambiare il corso delle cose: per secoli questa rimane condannata a un’economia di pura sussistenza, e tale resta fino agli anni Cinquanta del ’900.

Tra le conseguenze più pesanti, un’emigrazione forzata che ancora nel secondo dopoguerra costringe molti ad andarsene, svuotando il paese non solo sotto il profilo anagrafico ma anche e soprattutto delle energie migliori.

Per chi rimane, una terra avara costringe a fare tutti i giorni i conti con quel poco che c’è; ancora fino a un paio di generazioni fa, il panorama tipico della zona è quello del mais messo ad essiccare sull’aia di casa, e in tavola perfino l’alimento più di base è di serie B, perché tocca arrangiarsi con “el pan de sorgo.

È solamente dagli anni Settanta che le cose cambiano; ed è una vera e propria rivoluzione a sradicare secoli di miseria. Tra Arzergrande e Piove di Sacco, centro di riferimento del mandamento, viene infatti realizzata un’ampia area industriale e artigianale concepita come motore di sviluppo per l’intero bacino del Piovese, che negli anni oltretutto si viene allargando, e così crea occasioni di sviluppo per un’imprenditoria emergente, e in pari tempo allarga in modo sensibile l’occupazione.

Ma ci sono voluti quasi due millenni perché il corso della storia, più capriccioso di quello dei fiumi, si decidesse a cambiare.
 

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