Boara Pisani, una giravolta dell’Adige sull’antica Corte Elisina

L’intero territorio fu acquistato dai nobili veneziani per 50 zecchini d’oro resta a testimoniarlo la “Barchessona” con le sue monumentali 14 colonne
Boara Pisani (PD), 23 novembre 2017. Reportage su Boara Pisani. Nella foto: barchessa Pisani con le 14 colonne.
Boara Pisani (PD), 23 novembre 2017. Reportage su Boara Pisani. Nella foto: barchessa Pisani con le 14 colonne.

BOARA PISANI. Ci sono luoghi indissolubilmente legati all’acqua, con una simbiosi tra terra e fiume che non si è mai spezzata nei secoli; e Boara è uno di questi.

Lo testimonia, secondo alcuni, la stessa derivazione del nome: non da attribuirsi, come sembrerebbe a prima vista, alla “boaria”, cioè alla stabulazione (vale a dire la realizzazione di stalle e strutture fisse per l’allevamento degli animali) dei bovini nel territorio, visto che questa pratica in zona risale a non oltre il XVII secolo, bensì al termine longobardo “bouga”, che significa anello ma che viene usato anche per indicare un vortice d’acqua. E guardando le antiche mappe, si scopre che a questa altezza il corso dell’Adige compiva un’ampia curva, quasi un anello, prima che i veneziani nel XVIII secolo la eliminassero nell’ambito di una serie di opere idrauliche.

Boara Pisani (PD), 23 novembre 2017. Reportage su Boara Pisani. Nella foto: la chiesa parrocchiale con il crocefisso ligneo.
Boara Pisani (PD), 23 novembre 2017. Reportage su Boara Pisani. Nella foto: la chiesa parrocchiale con il crocefisso ligneo.


Ultimo lembo di territorio padovano prima di passare in Polesine, Boara ha aggiunto a questa collocazione geografica il vantaggio di trovarsi su una direttrice di traffico strategica, punto di transito e soprattutto di traghetto del fiume per gli scambi di persone e di merci tra l’Emilia e l’alto Veneto.

Non solo: la navigazione fluviale, molto diffusa in passato prima che una malintesa modernità ci facesse abbandonare queste preziose autostrade d’acqua, si basava per larghi tratti anche sull’impiego di cavalli che dalle rive trainavano i barconi lì dove c’erano da superare pendenze. Il paese così ha funzionato a lungo da un lato come punto di traghetto, dall’altro come stazione di posta e di cambio di cavalli.

E per molti secoli il grosso della popolazione di Boara è stato rappresentato da pescatori, barcari e cavallari, prima che i grandi interventi di bonifica e di sistemazione idraulica recuperassero quote crescenti di terra per l’agricoltura, alimentando così un’occupazione rivolta soprattutto a bovari, braccianti, carriolanti, gastaldi, mezzadri, con un’impronta rimasta praticamente immutata fino agli anni Venti del secolo scorso.

Boara Pisani (PD), 23 novembre 2017. Reportage su Boara Pisani. Nella foto: la chiesa a ridosso del fiume con uccelli sui fili.
Boara Pisani (PD), 23 novembre 2017. Reportage su Boara Pisani. Nella foto: la chiesa a ridosso del fiume con uccelli sui fili.


Le origini del paese sono remote: c’è chi le colloca poco dopo quelle di Rovigo, quindi intorno all’anno Mille; e chi invece le sposta un paio di secoli più avanti. Il vero salto di qualità arriva tuttavia molto più tardi, per la precisione il 12 agosto 1468, data di un atto notarile con il quale la nobile e ben nota famiglia veneziana dei Pisani acquista le valli di Vescovana e Solesino, il cui territorio assieme a quelli di Stanghella e per l’appunto di Boara costituisce quella che all’epoca viene chiamata la corte Elisina.

Estintasi la famiglia degli antichi proprietari, la Serenissima decide di mettere all’asta l’ampia e appetibile proprietà; e sono appunto i Pisani a spuntarla, mettendo sul piatto la non disprezzabile somma di cinquanta zecchini.

Mezzo secolo dopo, la dinasty decide di suddividere i possedimenti tra i suoi due rami, e lo fa con un atto notarile del 16 dicembre 1515, dal quale Boara ne esce tagliata da un’ideale linea divisoria rappresentata dalla strada della Ferraria.

Nell’atto si specifica che ai Santo Stefano toccano il passo e l’osteria, e agli Zobenigo lo “iuspatronato de la chiesa de la villa de Boara”.

La loro diventa comunque una presenza forte, di cui ancor oggi si possono cogliere i segni: come l’imponente “Barchessona”, nel centro del paese, ornata da quattordici monumentali colonne doriche, mentre altre sei sono andate distrutte durante la seconda guerra mondiale.

Sempre ai Pisani va ascritto, nella seconda metà del Cinquecento, l’ampliamento di un piccolo oratorio, poi intitolato a Santa Maria della Neve, letteralmente spazzato via qualche decennio più tardi da una disastrosa rotta dell’Adige; viene rifatto poco dopo, ospitando tra l’altro un crocefisso in legno, tuttora visibile, che secondo la leggenda popolare sarebbe stato miracolosamente trasportato dal fiume in occasione di una grave epidemia.

Nel 1563 diverrà chiesa parrocchiale. Ne sapremmo parecchio di più sulla vita e sui fatti della comunità, se padre Domenico Salsi, nominato parroco nel 1660, non avesse trovato che un servitore del suo predecessore aveva deciso di bruciare, ritenendoli superflui, i sostanziosi archivi parrocchiali, tra l’altro con le dettagliate relazioni predisposte per le visite pastorali del vescovo di Padova Gregorio Barbarigo: un fatto che deve aver sconvolto non poco il pio sacerdote, dal momento che ne fa espressa menzione in un suo scritto.

A caratterizzare la realtà di Boara, oltre a un’economia centrata sulla presenza dei Pisani, c’era in passato un’altra singolare risorsa: una serie di mulini natanti, tipici dei grandi fiumi come il Po e l’Adige, uno dei quali ha dato tra l’altro il nome al celebre romanzo di Bacchelli, “Il mulino del Po”.

Questi manufatti, resistititi fino a poco dopo la seconda guerra mondiale, si trovavano soprattutto nella frazione di Ca’ Bianca, nella parte orientale del paese, dove oggi si trovano due importanti testimonianze del passato: la tenuta di Sant’Antonio, che prende il nome da un vecchio e famoso capitello contenente la statua del Santo, protettore degli animali da lavoro e da cortile (quindi una figura importante per la gente del posto, che non a caso tutte le notti vi portava delle candele per tenere illuminato il capitello stesso); e il Palazzo rosso, di proprietà del ramo Santo Stefano della famiglia Pisani, risalente al Settecento.

Malgrado l’abbinamento con l’illustre sponsor della Serenissima, il paese mantiene comunque il solo nome di Boara fino all’inizio del 1868, quindi poco dopo l’annessione del Veneto all’Italia: il 5 gennaio, con un atto emanato da Firenze, dove in quel momento si trova la capitale del Regno prima di trasferirsi a Roma, re Vittorio Emanuele II su proposta del ministro dell’Interno autorizza il Comune a fregiarsi anche dell’appellativo di “Pisani”.

Un doveroso atto di omaggio alla nobile famiglia, certo; ma anche una scelta molto pratica, per evitare confusioni con la vicina Boara Polesine, e con un’altra Boara in provincia di Ferrara. Come l’Austria felix, almeno allora, pure l’Italia era un Paese ordinato…

(12, continua)


 

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