C’era una volta “corni freschi”: la storia di Nino il robivecchi

Persone e personaggi della strada mai dimenticati dalla memoria collettiva di Padova, dalla Gaetana al Conte

PADOVA. «Strasse, ossi, ferriveci» gridava pedalando sulla sua bici con il carretto davanti e un gran paio di corna di bue montate sopra. E subito dopo «Corrrrniiii, coooorniii freschi, cooorni freschi per tutti”, lo stesso slogan per decenni, con una variante: «Corni da salottoooo, da salottinoooo...».

Una diciamo campagna di marketing martellante, nella sua essenzialità, che dal dopoguerra resiste ancora oggi: roba da fare invidia a Toscani.

Padova lo chiamava direttamente “corni” quello strepitoso personaggio che per decenni ha girato il centro e la prima periferia a fare il pieno di strasse, ossi e ferriveci appunto, che poi rivendeva: un’immagine da pieno neorealismo.

FRIGO TREVISO DENTRO LA CITTA', IN FOTO UN UOMO ROVISTA DENTRO UN CESTINO DELLE IMMONDIZIE A PORTA S. QUARANTA AGENZIA FOTOGRAFICA FOTOFILM
FRIGO TREVISO DENTRO LA CITTA', IN FOTO UN UOMO ROVISTA DENTRO UN CESTINO DELLE IMMONDIZIE A PORTA S. QUARANTA AGENZIA FOTOGRAFICA FOTOFILM

Non c’è studente, tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, che non abbia qualche ricordo tipo: «Eravamo in un’aula al Liviano, lezione di filosofia. Il professore attacca: “Nel pensiero di Heiddegger..” e contemporaneamente “corniii freschi, corni da salottoooo”.

Boato di risate, e capitava una lezione sì e una no», racconta un attuale quasi sessantenne che quei “corni” evoca ancora con grande spasso.

Era lui, il robivecchi Nino, persona inglobata nel personaggio, cartolina ambulante che dal dopoguerra per decenni ha mantenuto la memoria di come eravamo, ha accompagnato la fantasia di generazioni di bambini con quel suo fare bizzarro, quel suo modo di urlare, quelle corna svettanti dal carretto.

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Si chiamava Riccardo Trolese, chiamato Nino, abitava a Liettoli di Campolongo, papà agricoltore, mamma casalinga con sette figli lui compreso: per decenni è partito ogni mattina all’alba da Liettoli, bici e carretto, alla volta di Padova; alla sera, il ritorno nella sua casetta con l’orto. D’estate, sempre pedalando e sempre in giornata, andava a Sottomarina.

Nino è morto circa sette anni fa, novantenne, a Gassino Torinese dove era andato ad abitare dalla sorella Giovanna (detta Ninea) oggi novantenne, un tot di anni prima quando, malato, non riusciva più a vivere da solo.

Era un tipo fatto a modo suo, un po’ orso, molto metodico, ordinatissimo e capace di grande eleganza, papillon compreso.

«Ha cominciato ragazzino a fare il robivecchi, a raccogliere e rivendere stracci e ferraglia» racconta la deliziosa sorella, 90 anni che paiono 70, aprendo squarci nella vita di Nino e nella sua, peraltro assai difficile ma portata con forza e sereno fatalismo.

«Andava su e giù da Padova. I nostri genitori a un certo punto sono emigrati a Torino, con gli altri fratelli: io nel 1955 sono rimasta vedova con tre figli, di 5, 3 e un anno. Mica c’era l’assistenza a quei tempi. I miei mi hanno presa a Torino con loro e mi hanno tenuto i figli quando ho trovato lavoro in fabbrica. Una dei miei figli, che abita ancora con me e della quale mi occupo, ha più di 60 anni ed è disabile.

«Quando siamo andati via, Nino ha preso un’altra casa a Liettoli ed è rimasto lì: coltivava l’orto, mi ricordo che non piantava mai cipolle ma solo scalogno, diceva che era molto più buono. Ci teneva moltissimo al cibo, si faceva sempre da mangiare cose buone. Era ordinato, ossessionato dalla pulizia. Non stava fermo un attimo, e aveva il suo caratterino: ma io e lui siamo sempre andati d’accordo. Anche quando mi sono trasferita a Torino, ogni tanto tornavo in pullman a Liettoli e stavo con lui 2-3 giorni. Ci siamo sempre aiutati, noi due. Lui non si era mai fidanzato né sposato».

Un tipo ruspio per dirla alla veneta, ma ricordarlo macchietta, mentre pedalava sciamannato sul trabiccolo colmo di cianfrusaglie gridando “corniiii freschi”, e poi immaginarlo al bar del paese, giacca e papillon, tutto tirato, simpatico solo con i pochi che gli andavano a genio, oppure vederlo sfaccendare in casa, e guai se la sorella gli spostava un oggetto, fa un certo effetto.

Persona ritrosa, un po’ ombrosa, perfezionista, annidata dentro un personaggio che ha scritto, anzi gridato, un bel pezzo della microstoria di Padova.

Nino a parte, tra gli anni Cinquanta-Sessanta e gli Ottanta, la città era popolata da una moltitudine di personaggi pubblici, in senso letterale, dalla vita sghemba ma socialmente accettati che giorno e notte abitavano le strade senza rischiare multe.

Chi lo chiamava “il conte”, chi “l’ingegnere”: era un tipo rossiccio di capelli, con lo scotch a tenere assieme gli occhiali; avrà avuto meno di 30 anni quando girava per il Prato della Valle, tipo clochard, assieme alla mamma.

Sacchetti in mano, la donna con le gambe sempre fasciate. Poi lei morì. E lui continuò la stessa vita: lo si trovava spesso alla biblioteca universitaria San Biagio seduto davanti a una pila di libri di matematica e sprofondato nell’acre odore della vita di strada. Dicevano che aveva rifiutato una sistemazione in appartamento.

Per anni ha dormito sotto il portico di corso Umberto I, all’altezza di vicolo Tabacco: stava lì, seduto per terra, non chiedeva l’elemosina, solo la accettava con quella sua elegante allure da nobile straccione per caso.

E ogni settimana giocava la schedina, chiedendo a qualche viso noto della zona di farlo per lui nella tabaccheria di fronte, sempre implacabile nel volersela pagare.

Un giorno, accanto a lui comparve una sontuosa e lisa poltrona di velluto rosso bordeaux: il gesto gentile di qualcuno per dargli un succedaneo di “casa”.

Risultato, una fotografia mai scattata da premio Pulitzer, un’immagine surreale resa paradossale dal fatto che la poltrona è rimasta lì per diverse stagioni e mai una volta il “conte” ci si è seduto sopra: lui stava per terra.

E come dimenticare Ernesto il posteggiatore, cappelletto con visiera, mezzo toscano in bocca e tanti gradi in corpo, che impartiva improbabili indicazioni agli automobilisti. Quando le sue gambe malferme non lo sostennero più, conoscenti e amici della strada fecero una colletta e gli regalarono una sedia a rotelle.

Infine la mitica Gaetana dalle gambe aggredite da elefantiasi: girava per il centro in bici, rovistava nella spazzatura, parlava poco e imprecava molto. «Guarda che chiamo la Gaetana» dicevano le mamme ai bambini turbolenti. La Gaetana, quando doveva fare pipì, la faceva e basta, in piedi, dove era, era.

La Lega, che ne ha fatto una bandiera per promuovere la sua festa provinciale, come dire il valore delle radici padovane, è probabile che oggi muoverebbe i comitati e i vigili per allontanare quel donnone molesto e maleodorante dal liston.

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