De Nittis il parigino la prima grande mostra in gennaio a Padova

PADOVA. Li conquistava tutti con i maccheroni, lui italiano che giocava sull’immagine e la sostanza: macaronì magari era lui, ma maccheroni era quella pasta che esaltava gli amici francesi. E che amici! Monet, Degas, Caillebotte, Daudet, Zola, i fratelli Goncourt, anche Oscar Wilde, quando c’era. Non resistevano alle cene del sabato a casa di Peppino De Nittis. Applaudivano quando lui si presentava con un gran vassoio di lasagne alla pugliese, lui orgoglioso di averle cucinate, loro spasmodici di quella ventata (e quei profumi) che era sì italiana, ma anche internazionale, e soprattutto simpatica e soprattutto degagé. De Nittis era un ospite perfetto: parlava di pittura, non si lamentava perché aveva un buon successo, non se la tirava anche se vendeva più di quasi tutti i suoi commensali, era allegro e comunicava buon umore. Quanti sabati in rue Viette a Monceau, quante serate piene di pittura, discussioni, e, immaginiamo, brindisi. Il “giro” degli impressionisti gli voleva bene, anche se De Nittis era un impressionista un po’ per conto proprio. Ma gli riconoscevano il merito di essere riuscito a “liberarsi” del giogo del gallerista Goupil, che voleva fargli dipingere soggetti storici, e Peppino disse no. Anzi, da quel momento, siccome i suoi quadri piacevano, era lui a “imporre” temi e soggetti alla galleria. Che anni, quegli anni a Parigi. Da vivere a fondo, d’un sorso, perché il calice della vita di Giuseppe De Nittis si svuota velocemente: muore a 38 anni, nel 1884, di una commozione cerebrale. Muore felice, perché così diceva fino al giorno prima, senza sapere che era il penultimo: vicino alla moglie Léontine, immedesimata nel suo lavoro, al figlio Jacques, in mezzo al verde di Saint Germain en Laye, in campagna, «perché Parigi è troppo caotica». Dopo diciassette anni nella capitale francese, lo conoscono tutti, lo apprezzano tutti, e naturalmente ha qualche nemico. Nella ville lumière De Nittis è arrivato a 21 anni, con coraggio e voglia di sfondare. Senza madre da quando aveva tre anni, senza padre da quando ne aveva dieci, viene allevato dai nonni a Barletta: piccola nobiltà di provincia, buona situazione economica, viene assecondato quando decide di iscriversi alla Scuola di pittura a Napoli. Dura poco, lo buttano fuori per il suo carattere. A Firenze va a studiare i macchiaioli. Parigi scopre che il suo carattere è aperto, amichevole, curioso. La gran barba scura non nasconde il sorriso, magari non ha il fascino di certi colleghi dal capello fluente, ma Léontine la conquista lo stesso, e sarà una certezza per tutta la vita. Da autodidatta, De Nittis costruisce il suo presente e il suo futuro. Gli interessa la realtà, la sua visione è nuova, è impressionista ma riesce a non allontanarsi dal gusto corrente. Così, mentre agli inizi gli impressionisti non vendono le loro opere, lui le vende, e gli estimatori aumentano. Un suo dipinto, agli inizi, valeva 2500 franchi, che era già una bella somma. Lavora “a contratto” per Goupil, che assicura il suo giovane pittore per 2270 franchi l’anno. De Nittis ha successo: Madame Sassoun gli commissiona un ritratto per 8000 franchi, il pittore ne prende 12.500 per il dipinto “Accanto alla pista la vettura è ferma”, un inglese impazzisce per le sue tele e compra “Piccadilly” per 25 mila franchi, prima di molti altri dipinti. Nel 1874, da maggio a dicembre, guadagna più di 57 mila franchi. Per fare un paragone: quando acquisterà, in pieno centro, il terreno per la villetta di rue Viette, pagherà 90 mila franchi. Tutto questo per dire che a Parigi si era imposto. Che vive bene, che ci teneva a dare i suoi ricevimenti così alla mano e così ben frequentati. Ci andava anche la principessa Matilde Bonaparte, ma anche il suo amico Cafiero. Lo chiamano Peppino, lui gioca a fare l’italiano ma è più parigino dei parigini: anche se a casa sua c’è musica del sud, c’è opera lirica, si canta. Sarà proprio De Nittis a contribuire al mito di Parigi fin de siècle: con i suoi quadri di una società elegante ma vera, meno frou frou di quella fin troppo leggiadra di Boldini. Anche Boldini, come il veneziano Zandomeneghi, è a Parigi, ma non si frequantano più di tanto. L’italien de Paris è lui, De Nittis, che è anche internazionale: viaggia moltissimo, va in Inghilterra, torna spesso in Italia, viaggia ovunque. Vincent Van Gogh lo incrocia, per lo meno incrocia un suo dipinto famoso, il ponte di Westminster, e ne scrive le lodi al fratello Teo. De Nittis lavora molto: si calcola che in vent’anni abbia dipinto mille e un quadro. Togliendo i primissimi anni di apprendistato, converrete che era su medie altissime. Anche acquistava dipinti: suoi due Manet, per esempio, che resteranno a Léontine. Dei suoi mille quadri, oggi se ne possono rintracciare duecento, sparsi tra musei e collezioni private. A Barletta c’è il nucleo di opere donate dalla vedova nel 1905. A Padova in mostra centoventi tele, il che significa praticamente tutto De Nittis.
Quando morì, lasciò veramente un vuoto: a parte gli invidiosi, fu un dispiacere condiviso. Goncourt scrisse di lui: «pittore così pittore». Sulla tomba al Père Lachaise, le parole di Alexandre Dumas: morto «en pleine jeunesse, en pleine gloire, comme les héros et les demi dieux». Uno degli ultimi dipinti è una colazione di famiglia in giardino a Saint Germain en Laye: sotto le fronde, il tavolo con Léontine e Jacques e il suo posto vuoto, con il tovagliolo spiegazzato.
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