Il parricida Michelotto torna in carcere
VILLAFRANCA PADOVANA
«Il quadro è tale da configurare il delitto di maltrattamenti: sin da quando è stato scarcerato per indulto il 3 agosto del 2006, il Michelotto, ha sottoposto i familiari a sistematiche vessazioni, minacce e prevaricazioni, costringendoli a fare quello che voleva, facendoli vivere in uno stato di perenne terrore». Il «Michelotto» è Eugenio Michelotto, 49 anni, residente a Villafranca Padovana. Le parole fra virgolette sono, invece, del giudice per le indagini preliminari Mariella Fino che, riprendendo quelle del sostituto procuratore Benedetto Roberti, ha messo nero su bianco un disagio di persone che in questi ultimi cinque anni hanno vissuto accanto ad un padre padrone. Eugenio Michelotto, arrestato dai carabinieri di Limena, è finito nuovamente in carcere. Quel carcere che lo ospitò da quel 27 gennaio 1994, quando con 13 coltellate uccise il proprio padre Amadeo e ferì gravemente la sua matrigna. Un delitto per il quale l’uomo ha scontato la sua pena, finché l’indulto non gli ha accorciato la detenzione.
Tornato a casa Eugenio Michelotto ha ricominciato a comportarsi come prima. Un padre-padrone, appunto, che ha costretto la moglie a prendersi il porto d’armi per uso sportivo per poter riabbracciare le carabine (acquistate dalla donna) che sono sempre state la sua ragione di vita. E di morte. Se è vero che una delle concause per cui accoltellò il genitore fu perché quest’ultimo voleva togliergli i fucili. «Ho fatto bene ad uccidere mio padre, perché ho salvato la casa, altrimenti l’avrebbe venduta», ringhiò l’uomo contro la moglie durante uno degli innumerevoli litigi. Ma Eugenio Michelotto ne aveva anche per la figlia maggiorenne: lui non voleva che lei studiasse. La considerava una perdita di tempo. Così come considerava inutile possedere la televisione perché oltre che pagare il canone avrebbe pure consumato la corrente. «I soldi mi servono per pagare l’avvocato che mi farà riavere le armi», ripeteva. Già, le armi. Eugenio Michelotto aveva fatto comperare alla moglie un fucile semiautomatico marca Baikal e una carabinia ad aria compressa, oltre a un chilo di polvere da sparo. «Adesso prendi il porto d’armi, altrimenti ti batto», aveva minacciato la moglie.
La situazione della famiglia Michelotto era nota: nel febbraio del 2009 era stata l’allora sindaco Beatrice Piovan a sollecitare il servizio di psichiatria dell’Usl 15 ad intervenire. Due anni prima era stata la titolare del negozio che aveva venduto la carabina alla moglie di Michelotto a segnalare l’acquisto ai carabinieri. Segnalazione che si era trasformato in un decreto di divieto di detenere armi anche per la donna.
La situazione, tuttavia, è precipitata poco prima di Capodanno. La moglie di Michelotto, infatti, è andata via di casa e la magistratura si è messa in moto per evitare nuove disgrazie. «E’ indispensabile tuterale le vittime – scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare – essendo imminente e grave il rischio non solo di prostrazione della condotta tenuta per anni, tale da indurre i denuncianti a fuggire, ma anche della messa in atto delle pesanti minacce, con rilevante richio per la loro incolumità».
«Solo la custodia carceraria è idonea a proteggere l’incolumità delle persone offese. Essa per altro è del tutto proporzionata sia alla gravità e durata delle condotte, sia alla personalità dell’imputato, che in caso di condanna non potrebbe certo usufruire della sospensione condizionale».
Paolo Baron
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