Kim Ki Duk sceglie l’eccesso Una violenza fine a se stessa tra evirati, sangue e vendette

Kim Ki Duk ritorna al Festival di Venezia, dopo il Leone d’oro conquistato lo scorso anno, con un film fuori concorso - “Moebius” - che contiene e, allo stesso tempo, supera i temi della sua personale poetica (il senso di colpa, la violenza, la redenzione attraverso la punizione del corpo) in una rappresentazione che odora più di provocazione (contro il proprio paese o il concetto di morale o le attuali produzioni cinematografiche?) che di autentica testimonianza del suo cinema di sublimazione della violenza, tanto questo “Moebius” è parossistico, smaccatamente psicanalitico e metaforico fino all’eccesso - non senza una qualche ironia - della condizione umana che ha origine e finisce negli organi genitali, intorno ai quali si snoda la trama del film.
Per punire il marito fedifrago, la moglie tradita, non riuscendo a vendicarsi direttamente sul pene di lui, non esita a evirare il figlio adolescente e a inghiottire l’organo amputato. Il padre, sconvolto dal senso di colpa, si fa a sua volta evirare chirurgicamente e, in attesa di un trapianto di pene, intraprende con il figlio un percorso alternativo di ricerca del piacere, trovando nel dolore auto-inferto un surrogato.
Così, allo sfregamento dei corpi, i due moderni eunuchi sostituiscono la scarnificazione di mani e piedi e, alla masturbazione, il movimento ritmico di un coltello conficcato nella spalla.
Una palingenesi sessuale che trasforma il corpo in un unico e indistinguibile organo genitale e la sofferenza in estasi: una linea continua (Primavera, Estate, Autunno, Inverno … e ancora Primavera) come il nastro di Möbius, il matematico tedesco a cui si ispira il titolo del film, in cui, venendo a mancare il principio geometrico delle facce, dopo aver percorso un giro ci si ritrova dalla parte opposta, salvo che si verifichi una cesura dall’esterno. Che nel film è rappresentata dal ritorno della madre: la sua ricomparsa in scena accende istinti incestuosi (reali e onirici) che portano alla dissoluzione definitiva del nucleo familiare e all’ennesimo atto punitivo del figlio sul suo nuovo pene trapiantato.
Se non stessimo parlando di Kim Ki Duk verrebbe da dire che il maestro coreano, dopo la crisi artistica e la ritrovata vena creativa con “Pietà”, si sia voluto svagare. Come nella sequenza più surreale del film, in cui il figlio e un altro giovanotto appena evirato si contendono l’organo amputato in mezzo alla strada, prima che questo finisca schiacciato sotto le ruote di un camion. Ma è una violenza che non ha nulla di struggente e che, nella sua efferata rappresentazione, amplificata dalla totale assenza di dialoghi, non nasconde alcuna bellezza, né tanto meno la spiritualità cui ci aveva abituati l’autore coreano.
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