Tragedia di Bovolenta, una famiglia distrutta dal dolore

BOVOLENTA. Sulla terra scura e pesante la pelle chiara e lucida del volto di Enrico risalta come quella di una bambola. È steso immobile il suo corpo e prima che lo copra un telo è la nebbia ad avvolgerlo e insieme alle gocce di pioggia, lo bagnano le lacrime del padre. La terra che amava, su cui era nato, cui aveva deciso di dedicare i suoi studi e a cui avrebbe dedicato la vita e il lavoro accoglie come una culla quel ragazzo di quattordici anni ucciso dal colpo partito accidentalmente dal fucile imbracciato dal padre. L’oscurità è calata veloce sul campo, il silenzio che incombe è rotto solo dal pianto di Sandro Zanettin che non può e non vuole credere a quello che è successo. Si stringe sulla tenuta mimetica, gli stivali infangati, risponde a monosillabi ai carabinieri e al pubblico ministero.
Eleonora, la mamma di Enrico, si è chiusa in casa. Non vuole vedere e parlare con nessuno: lo ha detto chiaramente all’assistente sociale che il sindaco Anna Pittarello ha fatto intervenire per darle un primo sostegno psicologico. Dentro e fuori l’abitazione sfilano maschere di dolore, una cugina si apparta sotto al gazebo, quasi a volersi nascondere. Il suo pianto fa da sfondo al chiacchiericcio intorno, di chi arriva trafelato perché ha saputo in paese di una disgrazia e ancora chiede cosa sia accaduto, del nonno che non smette di elencare quasi come recitando un mantra le doti del nipote, dell’amico di famiglia che racconta di aver visto nascere Enrico, che ogni sabato pomeriggio lo aspettava per mescergli il vino. «Aveva questa azienda nel sangue» dice Gildo, «era la sua vita. Di solito era lui a servirmi quando venivo a prendermi il vino. Era un ragazzo ma si comportava già come un uomo, serio e scrupoloso». Quella per la caccia è una passione che condividono in molti nella famiglia Zanettin. E in via Ceola, una biscia sinuosa di asfalto che taglia in due ampie distese di terra, ci sono molti cacciatori. In questa coda di stagione venatoria si spara a qualche anitra, se va bene. Nel mirino finiscono molti colombi e colombacci. Ce ne sono troppi e per chi coltiva la terra sono una sciagura. Si cerca di contenerne il numero. Enrico amava seguire il padre a caccia. Un giorno probabilmente avrebbe imbracciato anche lui un fucile e avrebbe proseguito una tradizione che si tramanda da generazioni. Come il padre avrebbe coltivato le vigne e prodotto il vino. Se la sua vita non fosse caduta sul fango pesante di un pomeriggio di caccia al colombaccio. L’ultimo a unirsi al capannello di persone intorno al corpo di Enrico è don Luciano che gli dà la sua benedizione.
Il carro funebre avanza a fatica sulla stradina fangosa e quando ritorna è scortato dai carabinieri. I militari accompagnano in casa Sandro Zanettin che avanza con lo sguardo fisso e vuoto e l’impressione è che nella sua testa rimbombi ancora, e all’infinito, quello sparo. «Non so cosa potrà succedere adesso» si dispera Lorenzo Gallinaro, nonno di Enrico, «per Sandro e mia figlia Eleonora la vita finisce qui. Come si fa ad andare avanti?». Rientra in casa e abbraccia la moglie, anche lei fra i primi a raggiungere il luogo della tragedia, con i capelli ancora arruffati perché la telefonata della figlia che le annunciava l’incidente l’ha colta mentre faceva il bagno.
Nella notte che incombe in via Ceola dolore e disperazione devono conciliarsi con le procedure, gli interrogatori e la ricostruzione dell’accaduto. Dietro le tende della cucina le ombre si muovono convulse, si parla sottovoce ed è solo il pianto a oltrepassare i muri e arrivare come uno schiaffo a chi sta fuori e dalla tragedia, per dovere o necessità, sta cercando di prendere le distanze. Il paese è piccolo e la notizia della morte di Enrico si diffonde in fretta. Continuano ad arrivare persone nel cortile illuminato ormai solo da una sottile lama di luce che esce dalla cantina. Tutti si fermano davanti l’abitazione dove una cortina di auto scure sembrano lì, quasi come un monito, ad annunciare e sancire la disgrazia.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova