Una notte, in un’auto La regia di Knight esalta Hardy, i sorprendenti set della crisi

Poi una sera, tornando dal lavoro, una telefonata sgretola la tua vita e, come in un castello di carte, anche quella di chi ti sta intorno. Una telefonata, mentre a casa ti aspettano per guardare tutti assieme la partita, salsiccia e birra già sul vassoio; e domani al lavoro doveva essere la giornata più importante di sempre.
Questo è “Locke”, magnetico film firmato da Steven Knigth, presentato Fuori Concorso, interpretato da Tom Hardy, il più trasformista e fisico degli attori chiamato a reggere un’ora e mezza di storia sempre solo, e sempre e solo al volante del suo Suv mentre la cinepresa lavora in tempo reale.
Intorno a Ivan Locke, il protagonista, vortica un mondo intero: la strada che percorre con le luci della notte, la rubrica digitale del telefono in viva voce, i suoi fantasmi, i suoi affetti, i suoi errori. Le voci lo inseguono, lo accompagnano, lo tormentano, lo condannano, lo incatenano: e le parole - la scrittura - costruiscono un mondo invisibile eppure evidente, le parole raccontano e mostrano tanto quanto potrebbero fare le immagini.
Un solo attore, che si conferma grandissimo in una prova di talento puro, una sola scena. Ed è singolare: è il secondo film, in questa Mostra, a scegliere come set un’automobile. Prima c’era stata Emma Dante, il suo “Via Castellana Bandiera”. Un film riuscito, e ugualmente interessante. Qualcosa vorrà pur dire. Per esempio, che nel cinema c’è chi trasforma la crisi in risorsa. Si può rinunciare a stili hollywoodiani, finanziamenti a pioggia, set faraonici, e fare comunque bellissimi film: se si hanno idee, eccellenti scritture, attori veri. E coraggio, e mestiere. I tempi peggiori, chissà, potrebbero dare spazio ai migliori: è come vedere una luce in fondo alla strada, percorrendola anche se non si vuole, ma come si deve, come Ivan Locke.
Anna Sandri
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