Ahmad, sei anni, ustionato dalle bombe a Gaza e curato a Padova: «Stavo solo giocando»

Il bimbo è arrivato sei mesi fa in Italia, aveva il 50 per cento del corpo ustionato: «Ho sentito tanto caldo, poi sono caduto a terra e non ricordo più niente. Quando ho riaperto gli occhi, c’erano tutti i miei amici nel sangue».

Leandro Barsotti
Ahmed e mamma Aala nella casa dove vivono all'Arcella
Ahmed e mamma Aala nella casa dove vivono all'Arcella

Ahmed getta lo sguardo assente verso l’angolo di parete che divide la finestra dal pavimento. «Stavo solo giocando con i miei amici nel cortile», dice con la piccola voce sicura dei suoi sei anni. Dev’esserci qualcosa che ti fa sentire punito da un dio sconosciuto quando, mentre salti e ridi e sei felice, una bomba esplode tutto intorno a te, trasformando in fuoco il tuo corpo. «Ho sentito tanto caldo, poi sono caduto a terra e non ricordo più niente. Quando ho riaperto gli occhi, c’erano tutti i miei amici nel sangue».

Le parole italiane

Sono passati sei mesi, siamo all’Arcella. Fa caldo che sembra quasi il Medio Oriente. Ahmed ha imparato qualche parola italiana, e soprattutto a esprimersi con gli occhi: se vaga nei ricordi li spegne, ma quando sta nel presente sembrano fari che captano ogni emozione, ogni intenzione, ogni piccolo movimento. Va ai centri estivi adesso, e se gli chiedi dei bambini italiani sorride con quella bocca senza i denti davanti, fa ok con il pollice e dice in arabo: «Meravigliosi! E’ tutto bellissimo a Padova».

Ahmad, il bambino ferito dalle bombe a Gaza e curato a Padova

E’ arrivato in città con mamma Aala e i fratelli gemelli Mohammed e Masak di 4 anni. Era San Valentino: cose belle che succedono nel giorno degli innamorati. Aveva il 50 per cento del corpo ustionato. Dopo la bomba, l’avevano portato di corsa in braccio ad un ospedale di campo di Gaza.

«Mi avevano detto che sarebbe potuto morire», ricorda ora la mamma, accanto a lui, dentro un tradizionale abito arabo, tutto azzurro, con il capo coperto. Tiene un telefono in mano, spera che arrivi un messaggio da suo marito, rimasto nella terra della morte sotto l’assedio degli israeliani, lì a scavare tra le macerie e cercare disperatamente cibo per sè e altre due figlie rimaste con lui. Da una settimana nessuna notizia, nessun collegamento, solo paura. «Mi avevano detto che Ahmed poteva morire, ma io so che Allah è rimasto sempre con noi, accanto al nostro dolore e alla nostra speranza di vivere. Fino al miracolo».

Le cose accadono

Il miracolo si chiama associazione «Padova abbraccia i bambini», la presidente è Rebecca Fedetto, un lungo passato solidale con altre organizzazioni e un’attenzione particolare per i piccoli che soffrono. «Ahmed è il primo dei quattro bambini con famiglia che finora siamo riusciti a portare a Padova. E’ stato tre mesi in ospedale, i medici sono stati fantastici, lo hanno rimesso in piedi, ora cammina ed è tornato a giocare, ha ancora dolori e il suo percorso di guarigione non è concluso, ma vederlo così oggi, sapendo da dove arriva, ci fa commuovere».

Stiamo parlando dentro una casa presa in affitto dall’associazione, Ahmed si è stufato di ascoltarci e ha preferito tornare a due macchinine da far correre sul pavimento. Ma uno sguardo verso di noi lo butta sempre. «Ahmed, cosa vorresti fare da grande?», gli chiedo. Non ci pensa un secondo: «The doctor!» esclama, e solleva la mano sinistra, ancora segnata dalle ustioni.

«Io non voglio più tornare a Gaza», riprende la mamma Aala, 35 anni. «Noi a Gaza avevamo una bella casa e una vita tranquilla, un lavoro e i nostri figli crescevano felici. Poi i soldati israeliani ci hanno costretti a lasciare la nostra casa e con le nostre valigie siamo stati portati in quella che dicevano essere la zona di sicurezza. E’ lì che ci hanno bombardati. Nella zona sicurezza. Ci hanno fatto esplodere».

Quando questa donna dagli occhi neri e i movimenti eleganti ha toccato il suolo italiano per la prima volta, non aveva alcuna idea del suo futuro. Oggi vorrebbe trovarsi un lavoro, spera che suo marito sia in salvo e possa un giorno raggiungerla con le altre loro figlie.

Rebecca Fedetto si prende sulle ginocchia la piccola Masak, e spiega: «La nostra associazione si occupa di tutte le necessità delle famiglie che arrivano senza niente, appena i vestiti che hanno addosso. Copriamo le spese di mantenimento, le spese scolastiche per l'inserimento scolastico, come per Ahmed e i suoi fratelli che abbiamo mandato alla scuola Gesù Maria e ai centri estivi, e le spese burocratiche per visti, tessere sanitarie e permessi di soggiorno. L'obiettivo è seguire bene le famiglie per evitare che vengano abbandonate in strutture come i Cas, i Centri di Accoglienza Straordinaria, perchè per noi è importante garantire la loro integrazione».

La forza del dolore

In occasione di questa visita, l’associazione ha portato ai bambini alcuni giochi. Uno è un mini mobile da bambole, con specchiera e cassettini. Ahmed è intento a spiegare alla piccola Masak come ci si specchia. L’altro gemellino, Mohammed, ne approfitta per far correre le macchinine a terra tra i loro piedi.

Immagina qualcuno adesso, qui come laggiù a Gaza, lanciare una bomba addosso a vite che non sanno ancora niente nella vita. Una bomba mortale, un’esplosione che ti trapassa i timpani, le schegge che ti entrano nella carne, il fuoco che ti brucia la pelle. Vite che si affacciano al mondo, eppure giudicate colpevoli di qualcosa che merita la morte. Non sanno nulla ancora del rancore, dei confini, della proprietà privata, delle tasse, dei raduni al parlamento israeliano, o europeo, o mondiale, ma sono colpevoli. Gli israeliani ne hanno già uccisi più di 50.000.

Eppure il dolore è una forza. Ahmed non sa quasi niente della vita, forse sa qualcosa della morte che lo ha accarezzato, di sicuro sa moltissimo del dolore. Che arriva e ti chiedi perchè proprio a me, che cosa stavo facendo, che cosa ho sbagliato. E non trovi risposta, così lo chiedi a tua madre, al tuo angelo, al cielo, alle stelle. Ma quando non chiedi più, perchè lo hai accettato nel tuo cuore ferito, il dolore diventa la tua forza.

La forza che vedi in quel sorriso sdentato di Ahmed, in quel modo orgoglioso di mostrarti come è tornato a camminare bene anche se i muscoli tirano e la schiena duole, ma cammina. Soprattutto il dolore diventa la sua forza quando dice: «The doctor». Desiderare di curare le persone. Aiutarle a guarire dalle ferite. Quelle che gli altri vedono e quelle che gli altri non vedono. Ahmed, 6 anni, prima elementare, sopravvissuto alle bombe di Gaza. Lo sai dire ciao? «Ciao!», esclama. E ci ripensa: «Ciao Padova!»

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