Giancarlo Pavin trovato senza vita dalla domestica: addio al fondatore del Cittadella
Storico capitano d’impresa e figura simbolo della città, aveva 83 anni. A causarne la morte una caduta dalle scale e il conseguente trauma cranico. Lascia i figli Massimo, Roberto e Vittorio

Addio a Giancarlo Pavin, capitano d’impresa e vicepresidente del Cittadella Calcio. Un destino improvviso e crudele ha portato via una personalità storica della città murata: 83 anni compiuti lo scorso 16 maggio, è stato trovato privo di sensi nella sua abitazione in via Lazzaretto, a Cittadella, dopo una caduta dalle scale.
Aveva in mano il cellulare e un grappolo d’uva: probabilmente ha perso l’equilibrio sugli ultimi gradini. La caduta gli è stata fatale. A ucciderlo, secondo quanto emerso dai primi rilievi dei carabinieri, sarebbe stato un trauma cranico violento.
La morte è stata scoperta nel pomeriggio di domenica primo giugno, quando ormai era troppo tardi per intervenire. Il medico legale sarà in visita oggi per rilasciare il certificato necessario a celebrare i funerali, che si ipotizzano per giovedì, e per definire con precisione l’ora del decesso. La camera ardente sarà allestita nella casa di una vita.
A trovare il corpo, sconvolta, è stata la collaboratrice domestica che da dodici anni lo seguiva con affetto e dedizione quotidiana. Era stata vicina anche alla moglie Luciana Bragagnolo, mancata nel 2013, e per la famiglia era diventata molto più di un’aiutante: parte integrante del loro vissuto.
Padre di Massimo, Roberto e Vittorio e nonno di sette nipoti, Pavin lascia un’eredità umana e imprenditoriale imponente. Una storia costruita con il lavoro quotidiano, con la passione per le sfide e con un fortissimo senso della famiglia.
A raccontare queste ore di dolore è il figlio Massimo, patròn della Sirmax, già presidente di Confindustria Padova: «Fatico davvero a realizzare. Sabato mattina eravamo insieme al funerale di Giorgio Simoni, ex socio della Sirmax e amico di famiglia. Siamo stati insieme tutto il giorno: ci siamo mossi in macchina insieme, lui era felice, lo chiamavano i suoi amici per fargli i complimenti per il mio cavalierato. Lui me li passava, tutto orgoglioso».
Una figura carismatica, quella di Pavin, simbolo del legame indissolubile tra impresa, territorio e sport. Nato nel 1942, aveva cominciato come dipendente, poi era diventato socio e si era distinto nel ramo delle costruzioni e alla guida di una cartiera.
Raccontava spesso con orgoglio il suo percorso, partito dopo il diploma di geometra: «Ero bravo, oggi le scuole sono tutte facili. Entrai nella cooperativa Luzzatti, e dopo 5 mesi ero già presidente. Si lavorava molto, si prendeva poco».
Il momento della svolta professionale lo individuava con precisione: «È stato nel 1968. Due lavori in centro a Carmignano e l’incontro della vita con Angelo Gabrielli». Da lì nacque un sodalizio che avrebbe cambiato la sua vita. E non solo. Fu presidente dei costruttori di Ance Padova e del Veneto, ricoprendo ruoli anche a livello nazionale; fu alla guida per anni di Confindustria Cittadella e venne nominato assessore comunale ai tempi della Democrazia Cristiana.
Nel 1973 contribuì alla fondazione dell’As Cittadella con Gabrielli, e per oltre cinquant’anni ne fu anima e sostenitore: presidente per dieci anni, poi vicepresidente, vicino all’attuale presidente Andrea Gabrielli e al direttore sportivo Stefano Marchetti, con cui aveva un rapporto umano profondo, basato su rispetto e stima reciproca.
«Andrea e Stefano gli volevano bene come a un padre» racconta ancora Massimo. «Lo vedevano di continuo, era una presenza costante. Non mancava quasi mai». Poi ricorda un momento recente, pieno di significato: «Qualche sera fa ero a cena con lui e gli ho detto: “Papà, hai sempre detto che volevi vedere il Citta in serie A, ma in un’intervista hai dichiarato che ci vorranno tre anni solo per tornare in B”».
E lui, con la consueta ironia, gli aveva risposto: «Guarda che non muoio presto». Era convinto di avere ancora tempo davanti, e continuava a guardare avanti anche dopo la retrocessione della squadra. «Sapeva che nel calcio ci sono alti e bassi, e li accettava con grande lucidità. Era sereno, fiducioso».
«Ho dedicato a mio padre la mia tesi di laurea» racconta ancora Massimo, «gli ho scritto: “Mio costante punto di riferimento”. E lui per la prima volta me lo ha detto apertamente: era orgoglioso di me. Me lo aveva sempre fatto capire, ma non l’aveva mai espresso così chiaramente».
Di suo padre dice che è stato «un esempio di serietà, onestà, trasparenza. Non era sempre d’accordo con le nostre scelte, ci siamo confrontati, anche scontrati, ma ci ha sempre rispettati. Ci ha lasciato la libertà di interpretare in chiave moderna i suoi insegnamenti. Non voleva Yes man». Un uomo che, fino all’ultimo giorno, ha vissuto intensamente.
«Andava ancora in ufficio ogni giorno, frequentava lo stadio, partecipava alla vita pubblica, manteneva i contatti con gli amici. Aveva uno sguardo lucido sul presente e sul futuro». C’è un pensiero che racchiude l’eredità morale del padre: «Cosa lo rendeva davvero felice? Che andassero d’accordo, tutti i figli, e che i nostri ragazzi lavorassero in azienda. Questo era il suo orgoglio più grande: la continuità, il valore della famiglia».
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